Nemico pubblico

Caldo afoso di luglio che ribolle sull’asfalto e riempie la città in una stretta infinita. Caldo che ci dà tregua in questa scuola. Sembriamo degli sfollati, in una stanza di ossa rotte, lividi e lunghi silenzi. I celerini ci hanno pestato per bene.
Sono partita con un’idea e tre magliette, e all’inizio quell’idea era più sbiadita dei colori che indossavo. Me ne vestivo come fosse un abito da sera, però, e questo mi sembrava bastasse.
Oggi mi hanno tolto qualsiasi cosa avessi, mentre mi trascinavano sulla strada per i capelli, mentre tutti in Via Tolemaide correvano per non farsi ammazzare. Il solo pensiero era poter tornare a casa e restarci per sempre. Stasera sembriamo al di fuori di noi stessi, come se la mente contasse le cicatrici senza pause. “È finita”, ripetiamo senza crederci troppo. Io al sicuro non mi ci sento, ho paura di arrendermi al sonno, ho paura di restare sveglia.
All’improvviso la quiete si spacca e qualcuno urla: “Sono qui!”. Tutti schiantano in piedi, sento le grida fuori che mi vengono a prendere. Inizio a correre e seguo un paio di scarpe davanti alla mia testa. Corro. Corro su per le scale ma non ho più fiato. Ma corro. Finché un rumore secco mi ferma. Il manganello mi ha raggiunto. Le costole. Presa.
Mi costringono ad alzarmi. Sono in tre e mi vomitano addosso “puttana” più di quanto respirino. Mi portano dentro una stanza con altre persone, tutte in piedi con la faccia al muro. Mi spingono e sento le costole cedere ancora. Cado. Rumore secco, altra botta. Stavolta è la gamba destra. Mi tirano su e mi buttano contro il muro. Mi dicono che se provo a sedermi mi ammazzano. Ci lasciano lì per non so quanto tempo. Il ragazzo vicino a me sta orinando. Non so chi è, non ci guardiamo in faccia. Nessuno in quella stanza guarda in faccia nessuno. O sei morto.
Arriva qualcuno alle nostre spalle e ordina a quelli di portarci fuori. Ci prendo e ci sbattono sul corridoio. Cado. Ora me li sento tutti addosso. Tutti. Sento le ossa che si rompono. Uno, due colpi alla testa. Sono ancora cosciente e sento i calci sul seno, sull’addome, sulla schiena. Tre, quattro colpi alla testa. Svengo.

“Mi sono imbattuto in una ragazza, alta circa 1,80, cono corpo abbastanza mascolino, robusto, probabilmente nordica, che giaceva in una pozza di sangue, ma sangue veramente copioso. La cosa più allarmante, ed è ciò che ho potuto verificare, è che c’erano dei grumi, grumi che sembravano materia cerebrale […]” (Genova, deposizione vice questore M. Fournier – Processo Diaz)

(Serena Michelozzi)