Alma mater

Il vento si insinuava tra le sbarre di ferro battuto che, intrecciandosi, componevano il cancello del cimitero. L’aria s’era fatta più fresca nel fine settimana ed io, divorata dai miei soliti, lancinanti dubbi morali, avevo deciso di far visita a quel mucchio di cenere e polvere che mi ostinavo ancora a chiamare “genitori”, benché ne avessero perso le fattezze da un bel po’.

Camminare tra le lapidi mi suscitava bizzarri tumulti dell’animo: leggevo un nome di sfuggita, dimenticandolo pochi secondi dopo nel tentativo di ricordare dove fossero i loculi dei miei. Percepivo gelide palme supplicanti sgusciare fuori dalle tombe e tentare di afferrarmi la caviglia o l’orlo del cappotto: in quel momento m’ero fatta portatrice della misericordia dei vivi in terra di defunti e, se avessi potuto, avrei lasciato un fiore ed una preghiera di cortesia su ciascuna di quelle lapidi.

La mia Via Crucis si concluse un quarto d’ora dopo. Piantai i piedi a terra, incapace di voltarmi: sulla destra, muti, giacevano i resti di quelli che erano stati mia madre e mio padre. Lo sguardo mi rimase impigliato tra le lettere ossidate che componevano i loro nomi e cognomi sul marmo pallido, caratteri che non riconoscevo in quella successione, perché per me quelli erano sempre stati “mamma” e “papà”. Non ho intenzione di raccontare favole: i miei genitori non erano perfetti, non lo sono mai stati. Le mie labbra non hanno mai pronunciato squallide frasi del genere “mio padre era un brav’uomo”, “mia madre era una santa”, neanche ai loro rispettivi funerali.

Mia madre…

Era una donnina tarchiata e tozza, goffa nei movimenti e buffa nell’andatura: in paese la chiamavano “botte” perché, quando s’agitava e passeggiava nervosamente avanti e indietro, sembrava una botticella di vino lasciata rotolare. Non era né garbata, né fine: bofonchiava e borbottava, le sue labbra si schiudevano solo per lamentarsi. Non voleva l’aiuto di nessuno, cucinava, puliva, faceva il bucato da sola, probabilmente reputava gli altri incompetenti o d’impaccio. Era capace di metterti a disagio con una frase, una parola, di distruggere ogni tua ambizione o illusione puerile. Durante l’adolescenza, ho alzato più volte la voce contro di lei: riusciva a farmi crollare con un semplice sguardo, a ridurmi in lacrime con un gesto della mano.

Ma io, inspiegabilmente, incondizionatamente, la amavo.

Ed ho amato la mia mamma anche quel pomeriggio di novembre, quando mi sono resa conto che ormai non era più nulla di tutto questo.