Baciami ora, che ci sta guardando!

I colori sanno di vecchio e consunto, di reparto lunga degenza, con quel verde camice e bianco panna che qualcuno cerca di riabilitare con qualche cartellone fatto negli anni precedenti da studenti finiti ora chi sa dove, che sembra voler appiccicare questo voler stare “al passo con i tempi” a una parete che i tempi non li vuole reggere. E dategliela una ritinteggiata con colori del nuovo millennio, ogni tanto. I corridoi si perdono e gli occhi mi si s’incrociano, le persone corrono su e giù per le scale con una destinazione ben stampata in testa e nelle gambe, nemmeno Donnie Darko con i suoi biscioni trasparenti che escono dal petto potrebbe fare di meglio. Mi schiaccio contro una parete, che un po’ dei suoi anni me li attacca addosso, come se già di mio non facessi abbastanza. Maledico il mio senso dell’orientamento e mi ripeto che devo cercare la 1C. La sistemazione controintuitiva delle aule non mi aiuta (“Cazzo, non poteva essere al primo piano la prima??”) e mi avvio controcorrente, cercando di farmi spazio a spallate tra quelli che hanno camicie fiche infilate nei pantaloni fichi che cadono su scarpe fiche e dalla cui spalla penzola uno zaino fico senza libri (è più fico dimenticarli a casa).
Tutta questa ficaggine mi dà alla testa, cerco un bagno in cui nascondermi, cercando di darmi magari una schiaffata di acqua fredda, che nemmeno Di Caprio nella scena iniziale di Shutter Island alla ricerca dell’identità perduta (tranquillo Leo, manco io l’ho mai trovata).
Entrano delle ragazze altrettanto fiche che guardano il mio maglione infeltrito della nonna, la ferraglia che mi porto in bocca dai tempi del colera e una tinta di capelli che mannaggia ad essere cresciuta con un padre che voleva un figlio con cui smontare radio (ora so pure costruire una dinamo, comunque). Ah sì, gli occhiali mica mi mancano, ma almeno il baffo esterno ho deciso di appenderlo al chiodo. Lascio impacchettata in un angolo del bagno pure la ragazzina di due mesi prima, quella che ha dato il primo bacio al ragazzino pop delle medie perchè perché quella cazzo di bottiglia proprio me doveva indicare e che gli è valso due lavate di bocca tra le risate generali e a me quattro tentativi di rianimazione, pensando che prima o poi l’umanità dovrà pur estinguersi e che alla fine Lamarck me la può pure menare.
Esco.
“Oh, ma le fanno pure fighe al primo anno Eli, collezioniamo?”.
Giovane era, e bello, e di gentile aspetto; ahi se quella volta avessi saputo che – minchia – sotto una certa età o peso o lunghezza li fanno tutti stupidi. Si avvicina a me con corredo completo: camminata alla Fonzarelli, capello lungo ma non troppo, giubbotto di pelle, arroganza aggiudicata, fidanzata nella tasca destra, collezione di slinguazzate adulterine nella tasca sinistra.
Lo guardo avvicinarsi con questa gigante canna da pesca e mi faccio bucare la guancia da un altrettanto gigante arpione, prendere per mano e condurre verso spiagge bianche, campi elisi, beate distese di eterna felicità. Procedo investita della stessa luce apollinea che lo irradia ed emana, questa idea iperuranica che suscita l’invidia di tutte le fiche che per anni ci avevano provato (“Vedete che alla fine quelle brutte ve magnano i gnocchi in testa, che noi siamo davvero più simpatiche, che fanculo sono valsi 15 anni di attesa per questo riscatto social-esistenziale”) fino a quando si ferma, in mezzo al corridoio. Mi fermo al suo fianco, lo guardo, mi guarda, lo sogno, mi sogna, lo sfioro, mi sfiora, ma nel sussurrare mi batte sul tempo: “Vedi quella? Quella mora laggiù davanti alla 5C? Ecco, lei mi ha appena lasciato, baciami ora che ci sta guardando!”