La cosa più bella

Camminavamo lungo il viale della stazione, affiancate, in silenzio.
Nessuna automobile si era azzardata, in quella mattina di maggio, a percorrere la via, così da non interrompere il tacito miracolo della natura. Un diluvio di fiori aveva inondato le aiuole e i giardini oltre i cancelli, cancelli ormai da anni colonizzati da una ruggine che mesi prima aveva fatto pensare a un autunno interminabile.

«Francesca, ti ho mai raccontato di quando è morta mia madre?»
“Ci risiamo. Quante altre volte la dovrò sentire questa storia?”
«No, mai… me lo vuoi raccontare?»

I polmoni della signora Marta non le permettevano di camminare e parlare allo stesso tempo, così ci sedemmo sulla panchina più vicina.

«Avevo solo sedici anni, quando mia madre morì. Ero abituata a stare da sola, perché non avevo fratelli, e i miei genitori lavoravano entrambi fuori città. Andavo a scuola da sola, tornavo a casa, mi preparavo il pranzo, e poi mi mettevo a studiare. Se non avevo troppi compiti andavo al parchetto, anche se dopo un po’ mi resi conto che vedere tutti quei bambini alle giostre assieme alle loro mamme mi rendeva triste. Diventavo triste vedendo quelle scene perché erano scene che io non avevo mai vissuto, io non ero mai andata alle giostre con mia madre, o tantomeno con mio padre. Tu ci sei mai andata, Francesca?»

«Bèe, sì, magari da piccola qualche volta mi hanno portata ai giardini vicino a casa, ma ci sono andata più spesso con le varie babysitter che ho avuto…»

Odiavo questo momento del racconto, eppure non le mentivo mai. Potevo benissimo dirle che nemmeno io ero mai andata alle giostre con mia mamma… e invece no, non riuscivo a dirle una bugia, perché Marta era lì, seduta vicino a me, e mi stava raccontando la sua vita con una limpidezza e una sincerità totalmente pure; quindi con che coraggio, con che forza sarei riuscita a mentirle?

«Già, mi immagino il tuo faccino lentigginoso ridere sull’altalena… Ecco, un giorno, tornata dalla mia passeggiata, ho trovato in casa sia mia madre che mio padre, erano in salotto, e mi stavano aspettando. Quindici anni non erano abbastanza per accogliere e comprendere la notizia che dopo pochi minuti mi fu data: mia madre aveva un tumore al pancreas, che ce l’avrebbe rubata in un sospiro. E così fu, mia madre morì dopo pochi mesi. C’è un verso della Divina Commedia, che non mi ricordo mai… il fulmine è più lento se lo si conosce?»

«“Saetta previsa vien più lenta”?»

«Sì! È stato uno di quei versi che quando l’ho una volta letto mi è rimasto dentro… io sapevo che mia madre sarebbe morta, eppure la saetta arrivò velocissima, senza alcuna pietà: non ero pronta a convivere con l’idea che le giornate da passare da sola non avrebbero visto il viso di mia madre la sera…Quante sere a letto ho pianto sotto il cuscino, Francesca! E nella mia testa rimbombava un altro verso di padre Dante: “Non pianger anco, non piangere ancora: chè ché pianger ti convien per altra spada”. Lo dice Beatrice a Dante quando Virgilio lo abbandona. Ricordo l’odio che mi ribolliva dentro al pensiero di questo verso, che mi diceva di non piangere ora, perché ne avrei avuto ben miglior motivo in seguito… e quindi piangevo, e piangevo ancora di più, sentendomi incompresa da quel poeta che mi aveva accompagnato nei lunghi pomeriggi solitari, pensavo all’ingiustizia, alle altre ragazze che avevano al loro fianco una mamma a cui chiedere consigli, una mamma dalla quale farsi curare nei giorni di malattia, una mamma a cui ricordarsi troppe poche volte di dire “Ti voglio bene”.»

Il racconto finiva sempre qui. Marta alzava gli occhi al cielo, li faceva nuotare tra le soffici nuvole, e poi mi guardava, con quel sorriso stanco ma sincero che caratterizzava da anni il suo volto; appena sentivo il velo del suo sguardo posarsi su di me mi giravo dall’altra parte, dedicando quegli attimi all’assidua ricerca di un fazzoletto con il quale soffiarmi il naso e far scendere quelle lacrime che come perle si erano fermate sulle mie ciglia.

Finalmente mi sveglio. Sono sul mio letto, il lenzuolo a righe rosa e grigie è per terra. Sono sudata, e ho il respiro pesante. Ho di nuovo sognato la signora Marta. È un sogno che faccio da un anno ormai, da quando non sono più andata ho smesso di andare alla casa di riposo a per fare servizio agli anziani del piano terra; Marta era la mia anziana preferita: una vecchina gracile ed educata, aggrappata al mondo e alla vita con tutte le sue forze, che trovava la voglia e il coraggio di uscire dalla sua stanza e di andare a porgere un saluto a quei metri di marciapiede che tante volte avevamo calpestato insieme. Una donna viva, che amava la vita, che la rispettava e la ringraziava per tutto ciò che di bello le aveva donato, senza far notare a nessuno gli sforzi che compiva contro la sua malattia.

Sono già le sette e mezza! Non arriverò mai a scuola in orario; scendo per la colazione, e sorrido alla mia famiglia, dicendo loro che sono la cosa più bella che mi sia mai capitata.