Carmen

Mi aprì in vestaglia sebbene fosse tarda mattinata. Ero stata via solo una settimana, ma la sua chioma appariva già abbondantemente alleggerita. Il sorriso timidamente gioioso, come a volermi rassicurare che tutto stesse andando benissimo. Sullo sfondo bianco di luce, mio padre sistemava dei documenti ed io le dissi, seria e perplessa: «Ma stanno già cadendo». Poi, fedele al mio spirito ondivago e saltellante, migrai, canticchiando, a lezione. Maglia color indaco semitrasparente da buttare, il seno in evidenza per nulla; Marco non mi voleva più, probabilmente non mi aveva mai voluta. Questo, però, non potevo dirlo a lei: per lei avrei inventato una lacerazione del tessuto leggero.

I mesi caldi furono freddi, e furono insieme brucianti, come i sughi che dimenticavo sui fornelli; però, girando e rigirando su me stessa, mi ritrovai sempre ferma nella medesima convinzione: tutto si sarebbe sistemato. L’esame più duro fu la corsa al cesso ogni tre cucchiai di pastina insipida, così come la pressoché totale accettazione della sua metamorfosi fisica, per cui quegli stivali rossi acquistati a Parigi durante il viaggio di nozze pareva che mai potesse averli indossati. «Tacco altissimo, sapessi su cosa camminavo da giovane», ripeteva sempre. Eppure giovane a Parigi lo era stata, e ad una sua bella foto sbiadita associo sempre la Prettiest Star del Bowie più eccentrico e cocainomane. Lo fu, giovane e incantevole, sul lungomare di Savona, e poi ancora mentre mio padre coglieva il suo mento come fosse stato un fiore, e ancora quando mi salvò la vita da una caramella al limone decisa ad annientarmi; o molto prima, quando tormentavo le sue unghie con le mie per abbandonarmi al dolce deliquio. Non avrò mai la sua pazienza, lo sostiene tutt’ora: e forse ha fin troppa ragione, ché l’amore è una questione troppo seria e difficile che il mio algoritmo non riesce ad elaborare. Mi chiedo se anche a lei, superati gli ottanta, tremerà il mento quando si arrabbierà come capitava alla nonna Antonina.