Con-Fine

Mi chiamo Andrea. Faccio la seconda media. Cammino verso scuola con il mio zaino Invicta sulle spalle, i lacci lunghi così da farlo scendere fin sotto la schiena. Dov’è il mio gruppo? Sono solo adesso. Mi avranno aspettato prima di entrare? Cosa sono io per loro?

So che da solo non esisto. Due gambe che camminano e una testa protesa al momento in cui sarò inglobato nella loro atmosfera. Nella nostra atmosfera, quella che abbiamo creato e che ci tiene uniti. Tiene unito il gruppo, come ognuno di noi. Tiene unite le mie braccia al mio busto, le mie gambe ai miei piedi. Mi tiene unita come persona, se è questo che sto diventando.

Mi chiamo Andrea. Faccio la quarta superiore. Getto la borsa di pelle sul sedile posteriore, e accendo il motore. C’è traffico la mattina per arrivare a scuola, devo partire in anticipo. Accendo la radio, una buona musica è fondamentale prima di passare cinque ore della mia vita là dentro. Rinchiuso fra quelle mura dove io non c’entro niente. Con persone con le quali non c’entro niente. Parliamo del più e del meno, di quanti minuti restano alla fine della lezione. Della camicetta a fiori ridicola che indossa anche oggi quello di italiano. Come potrei parlarci di qualcos’altro? Non mi capirebbero. Vivo nel mio mondo interiore, una fortezza ad alti muri chiusa a qualunque altra persona. Soprattutto a quelli della mia età. Scrivo alla sera, ecco come mi sfogo. L’unico momento in cui sono vero, non fingo.

Labile è la differenza fra il bisogno di confondersi dentro ad un gruppo, e il bisogno di emergere a tutti i costi. Labile perché entrambi dettati da un bisogno di definizione dei propri confini. Quando ci accorgiamo di essere anche altro rispetto al gruppo, è allora che vogliamo emergere. E lo facciamo in modo violento, aggressivo, un atto di forza contro il mondo che sembra inglobarci. Noi siamo più forti, noi ce ne distacchiamo. La scrittura è questo atto violento. Una mano che stringe la penna e calca con forza lettere che da dentro si uniscono sudate sulla pagina, per distaccarsi e distinguersi da tutto quello che sta fuori.

Proprio perché derivante dal bisogno infantile di distaccamento e superiorità, i primi anni ornati da parole, crediamo che scrivere sia peculiare, un’attività solo nostra, che siamo esseri speciali, seduti con carta e penna su un piedistallo che ci permette di analizzare quello che gli altri stanno vivendo. Quando scriviamo esercitiamo la stessa forza del bambino che capisce di essere altro rispetto alla madre. La esercitiamo rispetto al mondo. Ignorando che tutti scrivono, che tutti nella loro intimità hanno bisogno di dire le stesse cose che in faccia non riescono a dire. E che la presunzione di aver costruito sulle fondamenta inconsistenti delle parole un mondo altro, non è che un superbo gesto di sfida. Un battere il pugno sul tavolo al sonoro urlo di “Anche io esisto”. Un richiamare a raccolta le proprie forze per annichilire il nemico, inventando qualcos’altro, rimescolando le carte. Creando una combinazione in cui noi abbiamo questo magico dono, che ci contraddistingue e ci rende unici, mentre gli altri no, gli altri vivono in modo comune. Ma è un inganno, una trappola mentale in cui abbiamo bisogno di rinchiuderci. Tutti in gruppo mostrano i propri lati superficiali, e noi, per “renderci altro”, abbiamo bisogno di pensare che loro siano solo quelli. La creazione è ossigeno per l’autostima, ci immola e ci fa salire sul monte Olimpo. Ci fa credere di essere speciali, diversi dagli altri. Nel solo nostro atto di chiudersi in camera e pensare, scrivere, pensiamo di aver diritto di sentirci superiori. Di guardare gli altri dall’altezza del monte e decidere, folgore in mano, il senso di quello che accade. Mentre nella stanza accanto alla nostra, il nostro coinquilino sta facendo la stessa cosa, solo che non ce lo dice. Ma noi questa cosa non lo accettiamo, la nostra coscienza non lo accetta. Cos’è che ci contraddistinguerebbe, allora?
Finché timidi e spauriti apriamo la porta ed usciamo di camera, incontriamo altre persone. Ci confrontiamo, parliamo con il nostro coinquilino. Leggiamo i suoi scritti.
E il bambino, quando cresce, capisce che tutto gli è stato dato dalla madre.