Di toast bruciati ed aspettative

Ero arrivata nella Città con il gelo sotto le scarpe e dentro al petto. La più grande nevicata degli ultimi decenni scrivevano i giornali come ad ogni ciclico ripetersi dell’evento, per dare alla gente qualcosa di cui lamentarsi e una scusa per starsene a casa ad alitare contro il vetro freddo. Nella Città si impara presto a non guardare in alto, che a volte i palazzi sembrano volerti crollare addosso e sommergerti di geometrie in frantumi e così mai nei mesi precedenti mai notai timida presenza degli alberi, e così mai mi accorsi, ma quando era successo, che i colori erano tornati al loro posto?

Apro gli occhi rigirandomi in un letto sconosciuto come la schiena addormentata su cui sbatto lo sguardo pigro, su cui seguo con la punta delle dita intrecci di fiori di pesco ad inchiostro sottopelle che non appassiranno mai, e vedo le tende gonfiarsi e sgonfiarsi ritmicamente come polmoni stanchi davanti alla finestra spalancata e nell’aria toast bruciato e aspettative.

Scivolo fuori dalle lenzuola e salgo sul tetto, non sono mai salita su un tetto abbastanza alto da meritare le mie vertigini e sento il vento caldo accarezzarmi le braccia attraverso le maniche leggere di una camicia troppo larga e guardo in basso ed è tutto così rosa, non come in quel racconto che avevo letto dove c’era una ragazza che non voleva fare niente perché “era tutto così verde” – e non menzionerò l’autore per non suonare intellettuale e qui non c’è proprio niente di intellettuale, solo l’assenza di quel freddo che cancella gli odori e questa nuova stagione che mi avvolge e invece mi fa venire voglia di fare tutto, di sentire tutto in questo il mio Oriente vista Atlantico.

Pensavo che non l’avrei riconosciuta così lontana da casa, ma ora scopro che i sensi e certe premonizioni facilmente trascendono gli oceani. Mi sporgo dalla ringhiera, e inspiro fino a sentirmi la testa girare leggera e la totalità degli eventi, fino a dove riuscivo a spingere la mia memoria , sembrava riassumersi e convergere in quell’unico respiro così pieno, in cui sentivo di poter accogliere tutto, anche il male peggiore, che non è mai nient’altro che una semplice trasformazione di stato che ci attraversa temporaneamente la mente come fa ora l’ossigeno denso con il mio corpo

A rallentatore la mia mano ondeggia salutando una sagoma scura e solitaria su un’altra terrazza e nell’immobilità del momento qualcosa dentro (ri)fiorisce.

(di Giorgia Papagno)