Domicilio Piazzale Marassi 2

Il giovane agente che mi scorta lungo il corridoio grigio topo della quarta sezione del carcere di Genova Marassi ha appena montato il turno, odora di Marlboro e birra doppio malto. Un segno della croce davanti alla statua di San Basilide dell’ufficio matricola e la coscienza si sistema. Mi trascino i piedi, ho i brividi, il metadone che ho preso in nero stamattina non mi ha coperto abbastanza, sento i peli delle braccia rizzarsi sotto la giacca a vento, ho gli occhi gonfi di sonno e le manette mi impediscono di leggere l’ora al polso. Alzo lo sguardo, l’orologio appeso in corridoio segna le sei. Impossibile.

Fuori dalla finestra ferrata che dà sul cortile dell’ora d’aria, il buio mi fa solo intuire che sui muri sono dipinti il mare e delle colline. Per pochi secondi mi sono rivisto all’asilo quando, in quel cortile, scappavo dalla suora che mi rincorreva minacciandomi di mangiare le carote, armata di forchetta. Anche quella era galera. In carcere però il tempo per vivere non ti appartiene più, come la libertà: mangi quando decidono loro, dormi quando decidono loro, ti fai la barba quando decidono loro, parli coi parenti quando decidono loro.

Arrivati davanti alla cella ventitré, una gigante chiave d’ottone apre la porta di quella che sarà casa mia chissà per quanto.
“Benvenuto al Grand Hotel, vecchio”, penso. Negli ultimi vent’anni l’eroina mi ha fatto perdere chili e dignità, ma non l’ironia. La porta blindata della cella sbatte alle mie spalle. Il fetore di piedi e quello di ammoniaca fanno a gara per entrarmi nelle narici consumate, il fischio dello sciacquone bloccato si alterna al russare dell’uomo stordito dal Tavor, che dorme sulla branda come se si accompagnassero in un valzer. Appoggio silenziosamente a terra il mio sacco nero: uno spazzolino per i pochi denti che mi restano in bocca, gli occhiali da vista, una tuta, delle mutande e il santino di San Francesco che un tempo usavo per farmi le dosi, il quale ora mi obbliga a leggere una pagina del mio diario datata millenovecentottantanove.

Tu ragazzo ribelle che vivi i sogni in realtà io ti chiedo un grande favore: getta la siringa e drogati con l’amore”.
(La citazione appartiene ad un detenuto attualmente ristretto presso la Casa Circondariale di Genova Marassi.)