Echoes

Mi sentivo cucito e ricucito al mio buio, da dentro verso fuori, dall’esterno all’interno, rattoppamenti intersecati di forme geometriche e zoomorfe, forse naufraghe del pensiero di tutti quei bambini che stavano osservando le nuvole distesi nella notte. Cercavo di ruotare facendo perno su me stesso per spostare il mio peso qualche km più in là, ma era come se il cordone ombelicale che fino a poco prima mi aveva permesso di fluttuare per lunghe distanze, fosse stato risucchiato, costretto a ritirarsi tra le pieghe inermi della mia pancia, mentre la base del mio bacino veniva calamitata in un punto preciso dell’orizzonte, dove tutto finisce all’infinito. L’àncora era ben salda nonostante la vista avesse perso ogni sua connotazione evoluzionistica. E nuovamente si tornò a sfidare i mari rigonfi con i loro giganteschi flutti, che scaricavano l’ira contro la roccia sgretolata delle colonne al largo del tempo. Fuori, invece, era stato imposto un silenzio cosmico tale da desiderare di sporgersi lungo un crepaccio sospeso per urlare così forte da poter instaurare un dialogo con il proprio eco. Eppure lì l’eco pareva proprio non poter esistere, perché impossibile da controllare, da ascoltare e non per ultimo da emettere. Nulla pareva collegato in quella spoglia linea dell’orizzonte, ma vi assicuro che senza che il mondo se ne accorgesse, qualunque cosa continuava ad esistere. Mi era impedito qualunque movimento potesse traslarmi oltre il punto in cui ero ancorato, ma ciò che restava era il privilegio concessomi di un raro motivo di metamorfosi: potevo espandermi, allungare a piacimento ogni minimo brandello della mia massa fino a deformarla in maniera più totale scendendomi all’interno. Certo, laggiù non esisteva alcuna lanterna che potesse farmi da miraggio. Laggiù era come se avessi ricevuto come ricompensa l’accesso alle più svariate sensazioni che si manifestavano con foga tra i frammenti di quello che probabilmente stavo vivendo in altre dimensioni; e le molecole che si modificavano a ritmi impossibili e di cui riuscivo a percepire lontanamente solo le eclissi. Non ero sospeso in aria, ma era piuttosto quest’ultima a condensarsi più di quanto si sarebbe mai potuto fare, così da non riuscire nemmeno più a percepire se erano i miei passi a calpestare la polvere sottostante o la mia mente a diventare grande tanto quanto l’unione di tutte le stelle che avevano ricoperto nel corso delle ere, la volta dell’animo con paziente virtù.