Film Muto

Erano diversi minuti che attendeva quella telefonata.
Ripensava all’ultima volta che la sua bocca si era riempita di frasi di dovere sputate addosso alla donna che lo amava, Cristo se lo amava, in lei vedeva sua madre, come tutti del resto.
La fronte gli sudava leggermente, era vicino a una crisi di panico, sentiva il cuore arrivargli in gola e il respiro sempre più corto, sensazioni già conosciute, una lacrima gli scavava la guancia, marciando seguendo le linee del volto tra le rughe delle guance, tra la barba non fatta. Erano anni che la portava così.
Non c’era nessuno in giro quel giorno, e il cielo era grigio, tutto dello stesso colore, nessun rumore.
Nella sua mente piano piano tornava un ricordo fioco, di quel festival di film muti a cui da piccolo era andato con il padre, tutti pellicole ad episodi, alla prossima puntata dicevano, per non arrivare mai alla fine.
Sorrideva tristemente tra sè.
Quel giorno faceva freddo, qualche goccia cadeva dal cielo di quel marzo già da qualche minuto e gli aveva bagnato i capelli. In quei pochi minuti tre fluidi diversi gli scivolavano in faccia, una lacrima, il sudore, la pioggia.
Morris piangeva spesso, perché la debolezza del pianto gli regalava almno la forza di ammettersi debole, in questo era terribilmente onesto.
Una brezza gli mosse i capelli, pochi grigi capelli, mentre se ne stava a fissare un ciuffo d’erba cresciuto tra la sabbia.
Tra le mani stringeva un foglio di carta.
Sentiva un senso di sconfitta, scavato nell’anima con le proprie mani, la vita in fondo gli aveva regalato tutto per sentirsi felice, quindi non era certo colpa della vita pensava, ma la deprimente aspettativa di esser felice gli aveva coltivato un senso di disappunto verso le cose troppo semplici, accantonandole piano piano, dimenticandole.
Un uomo che mendica negli anni 2000 rivendicando un’identità strappatagli a forza, un uomo piccolo e disarmato.
In una striscia di fumetti probabilmente quell’uomo avrebbe avuto un volto sfigurato e mani insanguinate.
I luoghi per Morris erano importanti, come lo sono nei film, adorava Monicelli e cercava nella periferia una decadenza simile a quella dell’Italia del dopoguerra, in quel posto c’era stato da bevuto, ci aveva rollato canne, ci aveva fatto l’amore, ancora non ci aveva pianto e questo particolare per quasi un secondo lo aveva fatto sorridere.
La conosceva bene la sensazione di apatia che derivava dalla sua condizione, uomo debole, anima assopita, troppo codardo forse per eliminare tutto e ricominciare, sicuramente troppo codardo per aggiustare ciò che gli era rimasto.
Ripensava a suo padre, a come si era spento d’improvviso dopo anni che nemmeno gli aveva parlato, l’idea che un ricordo del padre fosse una rassegna di film muti sembrava maledettamente ironico, anche i ricordi lo sbeffeggiavano. Ora nella sua testa si era intromessa un’altra voce, aveva gli occhi chiusi.
Passarono circa una decina di minuti prima che il telefonino gli squillasse da dentro la giacca, non rispose.
Un lungo respiro ad occhi chiusi, quai ad accettare il compromesso di non scavare ancora, più si scende, più fa buio. Non rispose.
A quell’ora del giorno gli oggetti hanno ombre lunghe, si coricano, come per dormire.
Alla prossima puntata disse tra sè e sè.
Finì la sigaretta, salvo e sconfitto per tornare verso casa.