Gli anni di stagno

Un breve contenuto extra di attualità, per il settimo numero di Lahar Magazine, a tema “Sangue”.

Questo intervento non vuole essere né un vademecum per il perfetto anarchico, né un atto di cieca accettazione di uno Stato violento e fascista; mi prefiggo solamente di fare alcune riflessioni sulle mobilitazioni sociali in generale, prendendo spunto dallo sciopero europeo indetto per lo scorso 14 novembre 2012. Qualunque affermazione segua, è da considerarsi completamente una NdR, frutto di un ragionamento del tutto personale. Più propriamente, oltre che un’analisi del nostro presente, quello che vuole risultare è un breve riassunto di cosa vuol dire scioperare e mobilitarsi, in relazione alla nostra recente storia italiana.
Parlo del 1970, degli anni di piombo. Inizia tutto con un blasonato 1968: cortei e manifestazioni studentesche in tutta Europa; molte anche in Italia. Gli studenti hanno qualcosa da dire, scendono in piazza ed alzano la voce. “Rise up”, lo chiameremo nel 2012.
Gruppi armati fascisti organizzano attentati in punti chiave della sfera operaia: treni, stazioni FS e – in una data del tutto casuale, il 25 aprile – in un padiglione della FIAT alla Fiera di Milano.
A questo punto abbiamo il primo intervento dello Stato. Misteriosi, ma non troppo, personaggi appartenenti agli ambienti statali e dei servizi segreti, armano alcuni gruppi (che in seguito diventeranno NAR e Ordine Nero) di estrema destra e fanno detonare un ordigno in una sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano. Siamo nel 12 dicembre 1969, è appena avvenuta la strage di Piazza Fontana.
Da questi eventi si scatena uno stato di tensione, obiettivo più che caro ad uno governo che vuole reprimere le proteste e la sollevazione popolare, e che porta la massa ad accettare un clima militare. Vengono infatti proclamate alcune leggi “contro il terrorismo” che ledono in modo inimmaginabile la libertà, sia questa delle organizzazioni, sia questa del singolo individuo.
Gli anni dal 1977 al 1980 sono quelli in cui si raggiunse l’apice della violenza. Il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro ad opera della Brigate Rosse, la bomba fascista del 2 agosto 1980 nella stazione di Bologna, i continui assassinii di Pubblici Magistrati, manifestanti e “soldati blu”, i tanto famigerati celerini in tenuta anti-sommossa.
L’aspetto chiave, però, è uno ed uno solo. Un aspetto non eccessivamente lampante, ma che sta alla base di tutto il discorso. “Divide et impera”, dicevano i latini; e questa infatti è l’arma più efficace che uno Stato ha per bloccare manifestazioni di dissenso, rivolte e la stessa coscienza sociale delle masse. Metterci uno contro l’altro è l’obiettivo: sinistra contro destra, popolo contro Polizia, sinistra estremista contro sinistra moderata.
Accadde perfino, nel 1979, che un operaio sorpreso ad affiggere volantini di propaganda delle Brigate Rosse fosse denunciato da un collega (un sindacalista, mica il primo dei Salodiani). Quest’ultimo, dopo aver testimoniato al processo contro il brigatista, venne assassinato.
Il tempo delle P38 è finito, nessuno sta qui a rimpiangerlo e nessuno, credo, auspica a riportarlo nel nostro presente democratico e diplomatico.
Però se un cambiamento è quello che vogliamo, ormai il tempo delle parole è finito. Probabilmente, poi, qualcuno estrarrà una rivoltella e lì le cose prenderanno strade imprevedibili, ma le rivoluzioni, fossero anche utopiche, da sempre sono l’unico modo per cambiare una società sbagliata, il modo più efficace di progredire; e se la violenza è l’ultima spiaggia, siamo ormai sul bagnasciuga.
Un’Italia, unita sotto la stessa bandiera come il quinto articolo della nostra bellissima Costituzione sancisce, può ancora salvarsi. Siamo, fin dall’alba delle civiltà, uno dei popoli più progrediti dal punto di vista sociale e culturale. Non facciamoci mettere i piedi in testa. Ognuno come meglio crede, ma dobbiamo alzare la voce. Non venitemi a dire, poi, che gli scioperi non servono a nulla, se non a provocare disagi a chi a lavoro vuole andarci. Una mobilitazione serve proprio a questo. Deve farsi notare, creare disagi. Deve portare la gente a chiedersi: “Che problema c’è da risolvere? Cosa chiedono queste persone che scendono in piazza?”. Gli scioperi devono, scusate il cacofemismo, rompere i coglioni.
Coscienza, cultura, collaborazione. Queste le mie personali “3 C” per risollevarsi dalla melma in cui la nostra Patria, la mia Patria che tanto amo, sta sprofondando.

(di Diego Pontarolo)