Guerriere Ciambuli, qui ed oggi

Prima di definire un certo tipo di società come matriarcale o patriarcale, bisognerebbe accordarsi sul significato che si dà al termine “potere”. Margaret Mead, riferendosi alla società Ciambuli, lo individua nella predominanza del ruolo della donna nella pesca e nel commercio, e la sua capacità e libertà di prendere l’iniziativa sessuale.
E questo significato alla parola potere, non è forse lo stesso che diamo anche noi oggi?
L’uomo impone, sicuro grazie alla superiorità fisica, il suo dominio nell’ambito economico e sessuale della vita di coppia.
Può arrivare addirittura ad impedire, più o meno subdolamente, alla compagna di avere una propria carriera e un’autonomia economica. Lui solo lavora e porta i soldi a casa, e lui decide come spenderli. La donna deve chiedere, e di certo non mancano le battutine sarcastiche su come, se concessi, i soldi verranno sperperati in trucchi e scarpe.
E per quanto riguarda la sfera dei rapporti carnali, troppo spesso la donna rinuncia al proprio piacere e alla libera espressione della sua sessualità e il fulcro dell’atto sessuale è il solo appagamento del partner maschile. Troppi pochi i casi in cui si instaura invece un momento di relazione-comunicazione efficace, affinché vengano rispettate le esigenze di entrambi.
Se esistono società complesse in cui questo conteso “potere” è in mano a delle donne, perché continuiamo a lamentarci della sudditanza a cui siamo sottoposte ma la crediamo inevitabile e immutabile?
Perché non prendiamo iniziative forti e non esercitiamo tutto quel potere che saremmo sicuramente in grado di gestire?
Ho paura della riposta: forse perché per alcune donne è una situazione più comoda che scomoda.
Non avere responsabilità, dipendere completamente da qualcuno, rinunciare ai propri sogni per i progetti del nostro uomo con un vergognoso spirito da crocerossine, rintanarsi nella nicchia di “angeli del focolare” scavata per noi nel corso dei secoli.
Nessuna fatica, nessuna aspirazione e quindi nessuna possibilità di delusione, nessun pensiero proprio oltre a quei trucchi e a quelle scarpe. Spesso, siamo noi stesse le artefici delle nostre catene.
Ci nascondiamo dietro l’aggettivo “debole”, rinunciamo a tavolino alla lotta spesso con la sola scusante della superiorità fisica dell’uomo, ma non dimentichiamo che noi discendiamo dalle raccoglitrici preistoriche e dalle operaie delle guerre mondiali.
Non mi riferisco, di certo, a quelle situazioni in cui la donna è francamente abusata fisicamente e vittima di violenze fisiche e psicologiche, mi riferisco a quei casi in cui essa nemmeno si rende conto dello stato di inferiorità a cui si arrende.
Riconquistiamo la nostra autonomia, riappropriamoci dei nostri bisogni di realizzazione in ambito lavorativo, viviamo alla luce del sole le nostre passioni, il nostro desiderio sessuale.
Non accontentiamoci di vivere alla luce a neon di un negozio, comprando qualche bel vestito per farci belle per il nostro uomo, quello stesso uomo che con un sorriso sornione e di superiorità ci ha allungato i soldi da lui guadagnati.

(di Sally Parolin)