Il mondo è un libro, e chi viaggia legge una sola pagina

From Hollywood to Levanto

“Non scendo dalla montagna con quel triciclo di mezzo secolo!”. Dovetti. Il vecchio pazzo mi obbligò a farlo. In realtà non mi obbligò, ma se lo scrivo vi sembrerà di leggere una scenografia hollywoodiana, la stessa Hollywood che fa parte del Sistema tanto detestato da quel vecchio pazzo che mi ospitò. Ed è proprio in questo modo che mi guadagnavo da vivere, raccogliendo legna su un pendio scosceso con un mezzo di fortuna del secondo dopoguerra, un triciclo a motore. Raccoglievamo legna che serviva per scaldare la casa, rischiando la vita e sentendoci come dei Rambo durante la Guerra del Vietnam. Solo che il Vietnam si trasformò in Liguria, e Rambo in un ex insegnante di filosofia.
Ecco la mia storia: tre settimane passate sulle aspre colline liguri che sovrastano Levanto, giusto tra Venice Beach (Cinque Terre) e Santa Barbara (Rapallo, l’ospizio d’Italia), sistemato in un centro di meditazione mentre ero alla ricerca di qualche tecnica indiana per arrivare al nirvana e un po’ di yoga. Il caso ha voluto che l’unico responsabile di questa struttura fosse un ex affiliato delle Brigate Rosse ed ex insegnante in pensione di filosofia in un liceo di Genova. Viveva con una compagna, ma di lei non parlerò, perché aveva solo la peculiarità di essere irritante.

Ero finito appunto in un centro di meditazione auto-dipendente. Il mattino aiutavo il vecchio pazzo a costruire una casa in quello che era il suo podere, che dava direttamente sullo splendido Golfo di Genova. Il pomeriggio dopo una siesta obbligata all’ombra di profumatissimi alberi, mi riposavo imparando a suonare la chitarra, con un’antologia di canzoni di De André. Almeno ho avuto l’onore di sentire Creuza De Ma cantata da un genovese. Per scaldarsi il vecchio pazzo trasportava la legna che tagliavamo a fondo valle fino in cima alla collina, dove viveva, con un’improbabile triciclo-Jeep degli anni ’60. L’acqua bisognava andare a raccoglierla con delle secchie in un pozzo a fondo valle, e farla bollire per depurarla; la casa era inoltre provvista di una sola presa di corrente fatta costruire tre anni prima, a detta del nostro yogi. Il dispendio economico fu enorme, in quanto dovette portare la linea elettrica da fondo valle fino a quasi 600 metri d’altezza, cosa che rendeva la semplice azione di ricarica del cellulare un‘avventura alla Tom Clancy, lasciando chiunque senza contatti con il mondo esterno se non nelle rare discese vitali in quel di Levanto.

 

Monsieur, la Carte s’il vous plaît!

Vi ho detto che sono finito in una struttura auto-dipendente, questo significa che si vive solo di quello che si produce. E non si può vivere di basilico.

Nel menu di questa favolosa esperienza, sotto la voce breakfast, vi era compresa un’adorabile sveglia alle 5 del mattino per eseguire la posizione yoga del “Saluto al Sole”, seguita da una splendida colazione composta da foglie di qualche pianta essiccata immerse in acqua di pozzo ed una zolletta di zucchero, trasformando la tisana in un intruglio alla Harry Potter, dove lo stesso non avrebbe potuto fare di meglio.

Il pranzo poi era qualcosa di unico. Piatti e bicchieri sporchi, non lavati per risparmiare acqua. Verdura multi-color, con ottimo condimento di insetti vari e pesto alla genovese. Un giorno yogi mi propose una zuppa di verdure. La tenevo sott’occhio da parecchio tempo. Quella che per lui si chiamava zuppa di verdure, era in realtà un universo di micro organismi pullulante di vita. Far bollire della verdura con dell’acqua piovana, lasciarla in una pentola per 4 giorni sopra il forno, togliere le verdure oramai decomposte per metterne altre lasciando lo stesso brodo primitivo, far ribollire il tutto e pretendere di servirlo come zuppa, signori, no. Rifiutai con enorme dispiacere quello che avrebbe potuto valergli come nobel per la chimica in favore di una fetta di pane, olio e origano.

Ora, con l’anima in pace, posso tornare al tardo pomeriggio di quell’estate, dove sedute di yoga si alternavano ad ore di meditazione, in un paesaggio mozzafiato. E dove il tramonto era accompagnato da Bob Marley & The Waylers, che scandivano i secondi che separavano la luce dall’ombra come il ritmo raggae scandisce felicità e gioia nelle persone.

Si arrivava così alla cena. Su una piccola terrazza dove 4 pali creavano una tettoia che serviva più per dare senso all’opera che per utilità, c’era un piccolo tavolo poggiante su un terreno dissestato, luogo del delitto. Anche qui le prove non mancavano. Da cene a base di pasta al pesto, con varianti che definire personali è poco, passando per pizze (?) home made e terminando con risotti degni di Masterchef e Hell’s Kitchen.

 

Welcome home

Passai in questo modo tre settimane, crogiolato dal caldo sole della penisola, a braccetto con la pazzia e la solitudine. Riscaldato però da paesaggi mozzafiato, con lievi pendii che scendono dolcemente verso un’acqua cristallina, limpida, impregnata di vissuto, presente velo tra passato e futuro. Potete viaggiare in lungo e in largo su questo incredibile mondo, anzi, dovreste. Dovreste vedere quanto strano é. Dovreste osservare quanto ricco è. Quante emozioni saprà darvi, quanti desideri soddisfare, quante paure avverare, quante stelle regalarvi, quanti tramonti dipingervi e quante albe colorarvi. E non viaggerete mai abbastanza, perché ci sarà sempre qualcosa di nuovo da vedere, o qualcosa di vecchio da rivedere. Ed in questo eterno vivere tra quiete e moto, passato e futuro, nostalgia e desiderio, avrete sempre bisogno di sentirvi dire “bentornato a casa”, ma non avrete più nulla da temere perché il mondo è la vostra casa.

 

di Pedro Asti