Il Povero N. e l’Uccello del Terrore

Riassunto coinciso per rinunciatari battifiacca che leggiucchiano solo articoli-lista-acchiappa-click da 300 parole scarse:

1) circa 30 minuti fa, era un giovedì sera di alienazione low-cost come un altro per il Povero N. ;
2) circa 20 minuti fa, la precaria quotidianità del Povero N. filava su per giù come la vostra, alti e bassi permettendo;
3) 10 minuti fa, il Povero N. ha scombussolato l’Ordine Immaginato che sottende alla sua Vita Contemplativa del cazzo;
4) in questo preciso momento, il Povero N. sta per farsi un bel tuffo nel Grande Abisso Blu;

Fine.

Ora per chi avesse davvero voglia di sciropparsi tutta la faccenda, mettetevi pure comodi che cominciamo.

Questi sono i fatti: circa mezz’ora fa, imbambolato dallo Show della Fabbrica del Consenso che narrava la leggenda di come un materasso può svoltarti l’esistenza, il Povero N. era sfuggito alle grinfie di un attacco di panico aggrappandosi al citofono trillante, salvandosi per un pelo dal baratro di acquiescenza fatalistica che s’era spalancato nel bel mezzo del salotto di sua madre.
Appollaiatosi nel quinto angolo della stanza, l’Uccello del Terrore studiava pazientemente ogni suo movimento, in attesa che facesse un passo falso per riacciuffarlo.

Nel display in bianco e nero, S. puntava il pollice verso il basso con apprensione. Era una visita inaspettata la sua, ma si sa, quando una vuole solo parlare, non ci sono santi che tengano.
Aveva un paio di occhiaie pesanti, i capelli raccolti alla buona, a coda di cavallo, e vestiva una di quelle divise tutte sponsorizzate da sexy-hostess-a-chiamata per eventi motoristico-enogastronomici in pieno stile post-pop-capitalismo d’assalto.

Dieci minuti dopo, l’auto di lei s’arrampicava su per la collina tornante dopo tornante, sbuffando flebili, dense lingue di fumo dai finestrini sussurranti.
Banali ricombinazioni di interazione intima standard si alternavano a silenzi collaudati, di routine. La radio era spenta, il brontolio confrontante del motore euro-diesel faceva da sfondo a pensieri vaghi, a corto raggio.

Attraversavano quella fase finale di un rapporto di tamponamento sentimentale fatta di sguardi sfuggenti e considerazioni al plurale stiracchiate, un’impasse a cui non si riesce a dare un taglio, anche se ognuno è già per conto suo da un pezzo.

Snobbando il panorama di una provincia by-night fatta di apericene fra freelance semi-alcolizzati, N. si godeva la sua consueta, fugace evasione da un ozio creativo recintato entro un orizzonte esistenziale bimestrale che gli risparmiava la sfibrante contemplazione di un avvenire anomico, dissacrante, fatto di obbiettivi mancati, posticipati e puntualmente stralciati.

Giunti sulla cima, lo sfavillio dei paesi industrializzati che si snodavano fra i campi masticati dalla pioggia si era ormai dissolto nel Cielo violaceo, mentre L’Uccello del Terrore, stendendo la vela nera della sua Ombra sull’auto parcheggiata di U., planava oltre il Tempo e lo Spazio disegnando cerchi sempre più stretti, lento e inesorabile, preparandosi per l’attacco finale.

Venti minuti e due canne dopo, braccando la Chimera della Volontà al limitare del Deserto dei Sentimenti, N. si scopre smarrito fra le rovine del suo Templio Interiore, edificato in anni e anni di percorsi didattici farciti di propaganda del “duro lavoro”.

Qui, inciampa nel vuoto simulacro dell’Autorealizzazione, basamento della dottrina dell’Essereimprenditoridisestessi del cazzo che gli ha fuso il cervello in un caos di turbe psicologiche tipo quel grosso, irsuto volatile che occupa tutto l’Universo del suo Io, pronto a tuffarglisi nel cuore per tirarlo a picco nel Grande Abisso Blu.

E ora anche se dicesse troppo, anche se non dovesse dire abbastanza, il nostro N. non può non tentare il tutto per tutto.
Perché S., quella povera disgraziata, è ancora lì, sdraiata di fianco a lui, in attesa di un qualcosa che spezzi l’incantesimo che lo intrappola in quella sua bolla di solipsismo refrattario.

Ma è già troppo tardi.

I grilli, zittiti dai tuoni che ruggiscono in lontananza, abbandonano la collina mentre un sussurro di vento mugghia da est, oltre le montagne plumbee illuminate dai primi lampi scheletrici.

«Allora? si può sapere che hai?» Chiede girandosi verso di lui.
«Non so… É come… Come quando sei in apnea…» risponde N. tirando su col naso, lo sguardo perso nel vuoto «… Solo che non riesco a tornare su».