Kairos

Non posso fare a meno che trarne piacere. Ad ogni piccolo fallimento, ad ogni sconfitta seppur minima ed irrilevante un brivido mi percorre la spina dorsale, il formicolio che si crea sotto i talloni inizia a girare in un vorticoso moto a spirale, poi cresce e si espande, percorre le gambe sicuro e diritto fino alla schiena, dove si divide e si sparge raggiungendo ogni angolo del mio corpo, ogni piega recondita, ogni estremità. Le mani diventano frizzanti, la testa è leggera, i pensieri si sgretolano. Mi sento viva.
Mi passo una mano tra i capelli, mi arrotolo un’altra sigaretta, osservo lo scorrere dell’acqua che si fa spazio tra le mattonelle di terracotta e precipita nel vuoto. Aspiro una generosa boccata, il fumo lento si confonde con la nebbia che mi attornia e vola via, lasciando spazio ai pensieri che tornano arroganti ad occupare il loro posto.
È passato.

Quale sia il perverso meccanismo che mi porta a godere dell’insuccesso l’ho capito; era frustrante all’inizio trovare eccitante fisicamente e mentalmente il mio godimento dato da una fonte notoriamente sbagliata, e non riuscire a concettualizzare razionalmente quello che mi succedeva; ma accade, in ogni situazione, quel momento in cui tutto diventa così chiaro, così scontato, e ci sentiamo in imbarazzo con noi stessi per aver perso tempo ed energie su qualcosa di così ovvio. E così il muro viene abbattuto, il velo è squarciato, ci eleviamo al livello della comprensione in un attimo: un momento infinito in cui la realtà viene compresa nella sua pienezza e totalità dalla prospettiva dell’universale. La beffa, l’averla fatta alla miseria della condizione umana ancora una volta: l’aver rischiato di morire restando in quella sconfitta, l’aver assaporato il pericolo della paralisi totale per poi uscirne per un soffio con un soffio di energia vitale, un afflato tanto sottile quanto salvifico. L’idea di riemergere dal vuoto pur non essendone mai entrati, eppure esserci sempre vissuti dentro, questa è la consapevolezza che mi fa godere da arricciare le punte dei piedi. E quel brivido, quella scossa, e nonostante questo essere ancora vivi.

(di Camilla Finco)