L’aborto sereno di Emily Letts

Qualche mese fa la venticinquenne americana Emily Letts ha messo online un video del proprio aborto. Era incinta di due settimane quando ha fatto il test di gravidanza e sapeva di non essere pronta per la maternità e di non desiderare un figlio. Valutando le possibilità a sua disposizione ha incontrato grosse difficoltà nell’accedere a informazioni tecniche, serene e obiettive sull’intervento cui si sarebbe dovuta sottoporre e ha così deciso di essere lei testimone per gli altri, una testimone sorridente.

La notizia è stata riportata anche da alcune redazioni web dei nostri giornali locali, lasciando la possibilità agli utenti di commentare attraverso nickname. Partendo dal presupposto che l’aborto in Italia è legale dal 1978, pur con tutti i limiti di legge previsti, queste e altre conversazioni testimoniano come esso rappresenti ancora un ostinato tabù nel nostro Paese, compreso lo sviluppato Nord.
Quando va bene, i contributi invitano la donna a rivolgersi a centri pro-vita, a considerare un dono il seme che le sta crescendo in grembo e a pensare a soluzioni alternative, quali l’adozione. Nei casi peggiori, invece, non si contano i “troia”, “egoista”, “avreste dovuto chiudere le gambe tu e quella vacca di tua madre”.

Quel che mi ha stupito, però, non sono solo i commenti feroci, di una violenza gratuita e inspiegabile di fronte alla notizia (che mi spingono comunque a chiedermi perché questa violenza sia acclamata e condivisa, mentre quella presunta di Emily nei confronti di un embrione stigmatizzata e condannata), quanto piuttosto le ragioni che celano. L’aborto sembra essere socialmente accettabile solo quando è accompagnato dal senso di colpa, quando colei che lo pratica ne sottolinea la necessità e il tormento interiore che ne accompagnano la scelta.
Si è autorizzate ad abortire solo nella sofferenza mentre coloro che, come Emily, cercano di sradicare questa idolatria del dolore, di liberare la donna dalla sola dimensione dello strazio vengono additate come esseri disumani e superficiali. La pretesa di essere considerate persone, prima che madri, libere di decidere sempre e fino in fondo per se stesse scatena la bestialità di quanti vedono nella donna il vaso vuoto, l’utero ospitale che non può che accogliere con gratitudine e gioia l’arrivo di una nuova vita. Il vero tabù, allora, non è l’aborto in quanto tale, ma la possibilità che esso possa accompagnarsi agli stessi sentimenti di serenità e liberazione.

(di Alice Securo)