Naïvetè

Un tardo pomeriggio di Marzo in Alexanderplatz, luce radente, apparentemente trasportata dal vento, gli occhi che vedevano quegli spazi ampi per la prima volta, come se fossero stati appena creati. Sembrava che su tutto fosse sospeso un sottile velo di polvere: quella depositata dalle demolizioni, quella sollevata dai cantieri. Basta poco tempo per stravolgere l’architettura creata dalla memoria, tanto da far perdere l’orientamento e distorcere le proprie mappe mentali; il confine invisibile tra la città fin troppo solida del cemento e quella trasparente di vetro si sta pian piano sfumando.
Ci vollero anni perché mi ponessi la domanda: si può avere una visione ingenua del cemento? In un auditorium bianco, seduta su vecchia moquette grigia, ascoltavo senza capire le parole di uno svizzero che il materiale l’aveva quasi visto nascere. Noi, nati molto più tardi, realizziamo l’esistenza del cemento solo quando questo si scontra con le nostre ginocchia: la collisione ci vede perdenti, e da quel momento esso è un nemico. È la materia della nostra desolazione urbana e invecchia male, ricordandoci che il tempo cancella impietoso la maggior parte degli sforzi e delle idee degli architetti, che si perpetuano intatti nella loro bellezza solo sulla carta.
Facciamo un esperimento, dimentichiamoci tutti gli insegnamenti dell’esperienza, i preconcetti e l’abitudine: spogliamo il nostro occhio da tutto ciò che potrebbe disturbarlo, e guardiamoci attorno come se fossimo appena arrivati a questo mondo. Mettiamoci nei panni di qualcuno che non ha mai visto un luogo e non l’ha mai vissuto: cosa rimarrebbe delle nostre opinioni? Forse ci sentiremmo spiriti affini a chi voleva costruire poesia col cemento, solidificare la purezza in muri e pilastri perché si trasmettesse anche agli esseri umani che li avrebbero abitati, per inseguire il sogno, magari irrealizzabile, di migliorare l’umanità attraverso l’architettura.
L’utopia è ormai evaporata, soppiantata dalla cecità della speculazione che ne prende le forme ma non ne comprende l’intenzione. In fondo forse essa portava con sé il germe della propria distruzione: se si può davvero compiere qualsiasi impresa, ciò comprende sia il capolavoro sia il grottesco. Nelle nostre vite resta una presenza costante e lievemente sgradita. Disgregate sabbia, malta e ghiaia, in mano nostra rimane solo una decisione: che fare delle rovine?

(di Chiara Velicogna)