Nero su nero

Il foglio, immacolato, giaceva sulla scrivania. Penna in mano, attendeva la giusta ispirazione per disegnare il primo scarabocchio di quella lettera. Non uno scontato “cara Te”, ma uno di quegli esordi che sconquassino le viscere, rapiscano per la vita o facciano morire la lettura sul nascere. Non sarebbe stato facile scrivere nell’impenetrabile notte del suo monolocale.

Aveva smesso di pagare le bollette da mesi; il taglio di luce e gas ne era stato diretta conseguenza. Per preservare quell’oscuro bozzolo aveva dipinto le finestre di nera e densa vernice che non dava scampo alla luce diurna; il fioco bagliore sotto la porta d’ingresso era stato spento con della semplice ovatta. Si era così privato della vista, in modo da poter vedere davvero.

Con la punta della penna lambì incerto la carta e, dopo un ulteriore secondo d’esitazione, iniziò a descrivere ghirigori fantasma con mano ferma e sorprendentemente leggera. Non poteva accertarsi della bellezza del tratto né della perfezione formale di quanto andava tracciando, ma le parole salivano una ad una dalle coltri del suo pensiero, gradatamente accendendoglisi in testa come insegne al neon di una tavola calda dismessa, ma ancora confortevole. Aveva capito cosa scrivere; la sempiterna quiete notturna che lo avvolgeva si faceva di frase in frase rassicurante mantello.

Era sprofondato in quello stato d’isolamento auto-imposto sei mesi prima, quando lei l’aveva lasciato perché stufa del suo malessere e del reiterato ricorso all’autodistruzione come temporanea panacea dei suoi mali. Dopo aver perso anche il lavoro e la voglia di alzarsi dal letto, se non per andare in bagno e a fare la spesa (costituita in larga percentuale di alcolici), il taglio dell’elettricità gli aveva acceso una lampadina in testa: tagliati tutti i ponti con la vita al di fuori delle quattro mura, poteva trovare un ultimo, prezioso alleato nella completa oscurità; avrebbe meditato sugli errori, raccolto le idee e cercato la strategia migliore per riconquistarla. E così aveva fatto.

Giunse ai saluti, appose la sua solita firma (quella, sì, ne era certo, stilisticamente impeccabile) e posò la penna. Non restava che uscire e spedire la lettera, ma a questo non voleva pensare proprio ora che sentiva un tenue barlume di compiutezza insinuarglisi nelle pupille e scaldarlo. Lo avrebbe fatto domani – a proposito, era giorno lì fuori? – e poi avrebbe atteso.

E se non fosse andata, era sicuro che i suoi occhi si sarebbero presto abituati alla notte.