Non Si Uccidono Cosí Anche I Topi?

L’albero di cedro proiettava verso est la sua ombra allungata e sottile, quasi scheletrica se confrontata con la massa gigante della pianta. Il sole, scomparendo tra le montagne, bruciava il cielo nella sua lenta e inesorabile parabola. Sembrava sprofondare sotto il suo stesso peso, come un uomo che affonda nelle profondità di un lago.
Sotto l’albero, invece, un bambino più o meno della mia stessa età, si inginocchiava, sfiorando con le tasche posteriori dei pantaloncini corti la terra attorno alle radici. I suoi movimenti erano talmente lenti, e il suo sguardo talmente arrogante, fisso su quella palla in fiamma davanti a lui, che sembrava stesse in qualche modo sfidando il sole a chi fosse resistito più a lungo in quella scomoda situazione di incompletezza. Abbandonata quell’inutile provocazione (abbandono dovuto più a una sorta di tedia annoiata sovversione più che a une vera e propria disfatta causata dalla superiorità dello sfidante) il bambino si accucciò del tutto e, con il mento ancora sopra le ginocchia sbucciate, allungò la mano per raggiungere un piccolo bastoncino di legno poco lontano da lui. I tendini dell’avambraccio, tesi verso la piccola preda lignea, erano sorprendentemente e, in un certo qual modo, spaventosamente virili per un bambino di quell’età e ricordo di aver rabbrividito per un secondo, senza però rendermi conto del motivo, vedendo quel braccio energico e quell’indice mascolino puntati su un oggetto così fragile. Afferrato il legnetto, la sua mano sinistra si mosse verso il suo punto di partenza, tracciando però, questa volta, una traiettoria diversa, più ampia, con una rapidità isterica che non aveva niente a che vedere con la lentezza esasperante dei movimenti precedenti.
Mi lasciai sfuggire un gemito breve ma acuto che riuscii a controllare meglio che potei per non attirare la sua attenzione. A qualche centimetro da lui, inerte, se ne stava il piccolo corpicino di un ratto. Le budella fuoriuscivano da uno squarcio nella parte bassa del ventre, sulla destra. In uno slancio d’insolita empatia mi toccai la spessa cicatrice color cremisi, non ancora completamente rimarginata, che mi ero orgogliosamente procurato a seguito dell’appendicite.
Le zampe del piccolo muride si stendevano, aperte, verso l’esterno, e, in quella posizione, sembrava come quasi che il ratto fosse stato obbligato, dal caso o dal suo piccolo assassino, ma in ogni caso secondo una volontà ben precisa, a simulare goffamente la vittima di una crocifissione.
Mi avvicinai al bambino. Senza distogliere lo sguardo da quella carcassa nauseabonda, con il legnetto che premeva insistentemente sulla salma di quella povera creatura, mi disse: “Figo, eh? È bastata una bella bastonata”.