NONVENIRENONVENIRENONVENIRE NON

Lei dice vai cazzo, vai.
Dice si, si si, oh si, così.
Dice vengo, oh vengo vengo.
Dice, vieni anche tu. Vieni come me.
Io però dico no.

Ho il fiato corto, un groppo in gola e lo sento, sono al limite. Penso, fai un bel respiro bello, avanti, così.

Regola numero uno: non guardarle le tette.
Regola numero due: ridurre contatto fisico.

Ah, e non ti inventare di baciarla proprio adesso, che gode e ti guarda come fossi un fottuto Dio sceso in terra per distribuire cunnigulus e minchia dura a gratis.

Pensa antipatico, antiestetico, antisesso, basta che non ti inventi di mollare proprio adesso, testa di cazzo. Questa mica è deficiente, non è che se lo fa ripetere due volte.

Dice subito levati, fammi stare sopra e così salto davanti, ma non faccio in tempo a tirare indietro il sedile con lei sopra a cavalcioni che già se l’è messo dentro, e diventa tutto viscido e bollente e insomma ci siamo capiti.

Avete presente no?

Quell’istante in cui uno vorrebbe restare in bilico sull’asintoto sotteso fra noia e piacere, invischiato nell’ebbrezza di uno stimolo che deraglia nell’onanismo fine a sé stesso.
Aggrappato ai fianchi di questa mia cosiddetta amica, con le ginocchia piantate sul volante e il suo capezzolo destro schiaffato in bocca, attendo l’esplosione dello spettacolo pirotecnico potabile che mi si attorciglia nello stomaco come una molla, come, come se il cazzo che sfilo e infilo a ripetizione come stesse per saltar via tipo un idrante.

Mentre lei dice vai e si e oh mio dio e geme così forte che non mi sento più neanche respirare, gli scarico una sberla sul culo e quella mi pianta le unghie dentro le scapole, minuscoli peletti in controluce le si drizzano su per la schiena ed ecco un altro orgasmo in arrivo sul binario non-c’è-due-senza-tre che le fa letteralmente vibrare le gambe.
Alzo la radio per non sentire il rumore dei tergicristalli e la pioggia che scroscia, per non sentire il chachacha di me lì che scopo nel bel mezzo del niente di un parcheggio, intento a sfamare una dipendenza che ha monopolizzato i miei desideri, filtrandoli in un bel concentrato di libido senza fondo.

È come se fossi stato culturalmente indottrinato, socialmente e moralmente riprogammato per indulgere sulla soglia del piacere il più a lungo possibile nel vano, patetico tentativo di sfuggire ad un loop di stimolo-soddisfazione che mi fa solo desiderare un’altra scopata più lunga, più sporca, più forte.
Di più e ancora e mai uguale, come se non ci fosse altra scelta che incespicare in una landa ovattata di permissività anestetizzante, tanto nitida e assoluta da darmi le vertigini squadrando dall’alto questo corpo che gocciola calore e amore non corrisposto sul sedile inzuppato.

Intrappolato nell’Infinite Jest definitivo, cerco di non ascoltare la voce di lei che dice vai e cazzo e oh mio dio a ripetizione, ancora resisto, e ad occhi sbarrati ripeto fortissimo non venire, non venire bello, non venire, non venire, non venire, non venire, nonvenirenonvenirenonvenire non.