Papua e Fame

Sfogliare il menù infinito, incontrare il primo essere umano proveniente da Papua Nuova Guinea. In città. Una donna sui trent’anni, sovrappeso, la lingua larga, da rana, marcata da un piercing, occhi sporgenti. Arrivo, lascio la bicicletta. È sera, caldo, cielo limpido dopo una giornata appiccicosa. Un vialetto in salita, due tornanti, piante tropicali. La casa è scura, punto lo sguardo verso l’alto. Le finestre illuminate d’arancio, ombre. La strada proietta fanali e motori sulla facciata. Caroline è li, seduta sulla soglia, mi accoglie. In patria ha visto troppa ‘spiritual shit’ e si è fatta cristiana. Mi racconta della morte d’un cugino carnale.

Notte. Marcine s’alza, accoltella Max alla gola.

La popolazione locale non fischia nel buio, i morti s’agitano, ritornano. Non si parla inglese nella foresta. Non si pensa in nessuna lingua che non sia una delle ottocento perdute. Marcine piange sul corpo di Max. Gli spiriti che crepano male, rancorosi vagano, fumano. Un pomeriggio, la famiglia si riunisce nella sala grande. La sorella di Max al centro regge con due mani una spessa canna di bambù, le gambe divaricate. La nonna sta cucinando maiale e mais dolce; il profumo del cibo attrae il morto, la fame insaziabile. Lo chiamano, Max vieni, dove sei Max. La casa vibra, il tempo si irrigidisce e gli oggetti saltano in aria nella stanza, la presenza si manifesta in caos rabbioso. L’impotenza di fronte alla sorte fa impazzire Max che distrugge ogni cosa. La sorella resta salda nella sua posizione. Lo spirito esce dalla casa. Caroline assiste: nel giardino canne da zucchero sradicate una ad una, volano. Il vento si dirige verso la sorella, vieni Max, vieni. E s’infila nel bambù che diventa insopportabilmente pesante ed in cinque devono reggerlo. Seppelliranno la canna e l’anima che contiene, la sera stessa.