Uke-Mochi

Il cono di luce che scendeva perpendicolarmente dal lampione fino a raggiungere il marciapiede era reso sorprendentemente palpabile e denso dall’enorme quantità di umidità tipica delle serate autunnali. La consistenza spessa di quella luce, con i suoi bordi estremamente ben definiti, investiva una piccola figura, un esile corpicino di un metro e sessantatré, in equilibrio su due scarpe rosse col tacco. La donna, come una piccola falena in minigonna, camminava – ora in cerchio, ora in linea retta – mantenendosi costantemente all’interno del perimetro designato dal fascio di luce, stando attenta che nemmeno la più piccola parte di sé potesse sfiorare l’oscurità che la circondava, e provando un leggero brivido lungo la schiena quando un passo troppo lungo, o un gesto troppo ampio del gomito, rischiava di rovinare tutta la precisione di quei suoi movimenti ben studiati.
Un’auto accostò davanti a lei. Un uomo, sulla quarantina, si sporse leggermente verso il sedile del passeggero, in attesa che il finestrino automatico si aprisse definitivamente. La donna si avvicinò titubante alla macchina – non perché la situazione, a cui peraltro era abituata, provocasse in lei una qualche forma di timore, ma poiché si sentiva riluttante all’idea di dover abbandonare la sua ormai affezionata campana di vetro luminosa.
“Hai fame?”. La voce dell’uomo era asciutta, diretta, come la sua domanda. Lo sguardo interrogativo della donna fu abbastanza eloquente da permettere all’uomo di capire che fosse necessario riformulare la domanda. “Ti porto al ristorante. Ovviamente pago io, sia la cena che il disturbo”. La voce dell’uomo si era fatta di colpo meno risoluta, più nervosa, e il leggero aumentare dell’intonazione nella sua voce tradì la sicurezza che cercava di mostrare. “Perché invece non mi scopi e basta? Non serve che mi porti a cena o al cinema. Per chi cazzo mi hai preso, per la tua fidanzatina?”. La durezza di quelle parole, pronunciate da quella figura così apparentemente fragile, colpì l’uomo alla bocca dello stomaco. Girò le chiavi in senso antiorario, spegnendo il motore, e si sporse nuovamente verso la donna. “Il fatto è che… vedere le donne mangiare mi eccita terribilmente”. La donna emise un leggero risolino, accompagnato da un impercettibile spasmo all’altezza del petto. “Sei strano forte, eh?” “Vedi…”, rispose l’uomo, “credo ci sia un rapporto diretto tra cibo e sesso. Il problema è che nessuno ci fa veramente attenzione. Non è così strano se ci pensi bene. Riprodursi e sfamarsi… entrambi pulsioni istintive, primitive. Ma noi uomini siamo riusciti a renderli puri piaceri, a estirpare da essi la loro componente naturale, a trasformarli in vizi, peccati capitali. Il cibo e il sesso non sono altro che le forme più emblematiche della nostra tendenza a corrompere la purezza, a sfidare le divinità. Ed è proprio questo processo di corruzione che ci differenzia dagli animali, che ci rende umani. Capisci ora ?”.
La donna girò leggermente la testa, guardando con la coda dell’occhio il fascio di luce che fino a pochi minuti prima era stato, paradossalmente, il suo riparo. Con un colpo secco aprì la portiera e si sedette sul sedile passeggero. “Allora, dove mi porti?”.