Al Tavolo Con l’Epifania e l’Atarassia

Noia borghese o Tedio metafisico. Comunque sia, genuflessione al nulla, quasi grottesco, impalpabile. Quella esperita una sera ventilata e rosea, in un’epifania taciuta, mentre aspettavo il lascito dell’effetto biologico della digestione, infastidita dalla festa pubblica.
Era la risultante di un processo catartico innescato da una condizione definita da un horror vacui o forse meglio, da un amore per il pieno?
La Nausea che creava suscitava il senso di impotenza per il suo carattere a-cinetico e prodotto dalla gestazione di una stasi.
La condizione prodromica prevedeva la pietrificazione corporea, l’annegamento del pensiero, la liquefazione dell’identità, la reticenza del logocentrismo, l’ a-nestesia totale della percezione, un sucralfato anche per i sensi.
La condizione: un aleggiare per un quieto superamento della soglia tra realtà e finzione, quasi come giustificazione, permesso, volontà di mancanza di partecipazione, un’assenza voluta, del corpo e della mente.
All’interno, le viscere urlano senza una risposta alla causa, il corpo si agita come un epilettico nella crisi in un letto.
La salvezza: il distacco, come simulacro. La ricerca della distorsione, della oggettivazione, della definizione, dell’alterità. Fuggire dagli sguardi, ora divenuti sempre più giudiziosi, giudicanti, governanti, pesanti che gravitano.
Il temperamento flemmatico, la dipendenza da sostanze zuccherine, l’implosione nell’interiorità,la chiusura come processo dialettico culminante nell’auto-analisi, nell’auto-repressione. Per una ricerca dell’adattamento.
L’apparato delle azioni gestite per rigettare l’astrazione ricercata, per un assassinio dell’iper-realismo, non-accettato; la fuga come desiderio viscerale organico per la fucilazione della mente, o forse del corpo, l’auto-annullamento. Un pensiero che tra-guarda la persona in fronte a me: come sia garbata ed dignitosa la morte dei cani, invisibile ed elegante.
Le mie parole al tavolo non trovano orecchie. Tremano insicure nel loro manifestarsi nella realtà, per il loro carattere fatiscente, prezioso, allusivo. Caratterizzate principalmente dagli -ismi, divengono necessari e connaturati per definire i mostri, come i corpi in fronte a me.
La canalizzazione del disagio per il senso di inadeguatezza nella nevrosi plumbea in un movimento meccanico ripetuto, strumentalizzato nelle dita, perfette, concave e convesse, ormai sanguinanti.
Implicitamente condannata, per le tendenze immaginifiche, come trame neuronali arboriscenti, anelante al ritorno della possessione in sé della devozione, per una dipendenza trascendente, assorta, che defluire la propria fine nel corpo chiuso di un altro, in quel silenzio architettonico, per una comunione di rumori litanici corporali.
Anelito dell’abrogazione dell’identità, dell’identificazione in costrutti materici, per un assorbimento dei sé, per un’ascesa a monolite personale di confronto. L’affanno del respiro, tremore dolce per nascondere la confusione, la coscienza di una perdita, sovrastata dal vuoto, impotente nell’edificazione di un’interazione, per il timore dell’ennesima condanna. Perdita dunque della forma voluta, ma sofferta, si rispecchiano nell’inettitudine, nell’annichilimento, nel culmine dello svenimento, nel respiro affannato.
Il dualismo dicotomico del volere e dell’essere posseduto, la costante in disequilibrio, l’indigenza e l’apatia nei riguardi delle personalità.
Perché non parli con le persone? Perché non ti piacciono le persone? Chiesero.
L’identità non mi interessa. A me piacciono i corpi. Risposi.
Un desiderio materno, uterino, latteo nei confronti delle movenze anatomiche governanti la realtà, ma pensieri irrisori, momentanei, fuggiaschi di auto-percezione materica mostruosa, compassionevole, perversa. La prospettiva di un senso comune biologico, culla questo ideale nella mente.
Il tedio post-umano si identifica con il lascito ectoplasmatico dell’immagine propria identitatoria e dello schema corporale in una dimensione virtuale, ingrigliata, nel momento in cui la misurazione avviene come evento innescato dal nostro esporci e relazionarci al mondo, per uno stare materico-reattivo. La scelta, la relazione, la coscienza , pensieri vani, che si perdono nel labirinto cerebrale grigio in un andamento a ritroso.
Il giudizio, di un esistenza che insiste e non esiste di colei che rigetta la dimensione di una vita interiore, la quale vive la solitudine come punizione e non come possibilità, che declama incessantemente l’io, che si erige nella stasi del solipsismo, in albergane divinizzante di aseità, rigettante un idealismo oggettivo.
Persone che esistono, ripetevo.
La psicosomatica svela le sua regalità come un’edera, la dermatite, le mani anchilosate, artritiche, gli occhi vitrei.
Seduta al tavolo, giaci assente nel pieno materico, costruendo visioni che oltrepassano il realismo oggettivo doloroso, raggiungendo nel parossismo eccitato, inabile ed incapace di governare la dicotomia tra mente e corpo.