Baʿal zĕbūb

Il gatto si mosse impercettibilmente. I suoi occhi si riempirono di una luce opaca e argentata per un brevissimo intervallo di tempo, abbastanza lungo però da tradire la loro presenza tra due minuscole cornici, abilmente intessute dalle foglie del piccolo cespuglio. Stette immobile, passivo davanti alla fiumana di gente che gli scorreva davanti, completamente disinteressato al fluire delle loro voci. Le parole, seppur un tempo distinte, prodotte da un singolo individuo, si mescolavano ora tra loro, in un un’orgia incomprensibile e fastidiosa. Si accoppiavano viscidamente, innalzandosi in uno sgradevole orgasmo di suoni frastornanti, per poi ricadere verso il basso, mischiandosi alla melma grigiastra che ricopriva la strada del paese.

Uscì, regale, dalle fronde scure, un passo morbido e leggiadro dietro l’altro.

L’oscurità si era impossessata prepotentemente dell’ambiente circostante e, senza neanche una macchia bianca a contrastare il nero del pelo, il gatto si crogiolava nell’intimità delle tenebre che lo rendevano invisibile, cullandolo nella dolce possibilità di vedere senza essere visto, di essere uno spettatore discreto e attento.

Per qualche minuto approfittò di quel suo particolare privilegio, alternando occhiate disinteressate alla folla brulicante e profondi sbadigli, muti ruggiti che lasciavano intravedere una fila di denti ben affilata e due canini bianchi come la neve. Si allontanò quindi dall’ombra che lo avviluppava accostandosi allo scorrere delle genti, talmente lento da apparire infinito, e seguì un suo personale percorso parallelo a pochi metri di distanza.

L’animale non fece assolutamente caso alla sua nuova compagna di viaggio: accanto a lui una sagoma nera seguiva ogni suo passo, allungandosi e distorcendosi in base alla posizione del gatto rispetto alla luce proiettata dalle torce, le cui fiamme riverberavano una luce calda e tremante.

In certi momenti, questi fasci di luce colpivano il gatto da più parti, con la conseguenza che la sua ombra, da una, si era moltiplicata in un numero indefinito di macchie scure, dinamiche e violente nel loro movimento intorno al loro perno; una danza macabra in onore del loro esile padrone nero.

La sua presenza aveva ora catturato l’attenzione di un uomo. Con la coda dell’occhio il gatto lo vide farsi spazio fra le persone, distaccandosi dal flusso che imperterrito continuava il suo moto rettilineo verso un punto poco più in là, in una radura dietro l’ultima casa del paese. Lo vide chinarsi, gli occhi puntati incessantemente verso di lui. Il gatto indietreggiò, la preoccupazione negli occhi, e quando quella minacciosa presenza si fece abbastanza vicina da sottendere una volontà violenta e aggressiva, il gatto rispose inarcando la schiena, i cui peli si rizzarono verso l’alto. La coda sembrò duplicare il suo volume, e le orecchie, tirate verso il basso, divennero quasi invisibili. La sua bocca si aprì in una smorfia terrificante e un suono, simile a un soffio, uscì pestifero dall’animale. L’uomo scattò in avanti, aizzato da quella provocazione, e il gatto intimidito si lanciò finalmente in una fuga, tornando dalle nelle tenebre da cui era venuto. Anche il volto dell’uomo si distorse in una maschera oscena, paonazza e ripugnante, dalla cui bocca uscì una sola parola, piena di rabbia e di odio: “Diavolo!”. L’espressione sul suo viso, così come le circostanze, lasciarono presagire che non si trattasse di una semplice imprecazione.

L’uomo, ansimante, ritornò tra le persone ammassate, allungando il passo. In pochi minuti raggiunse il luogo nella radura dove la gente si era disposta in modo da formare un cerchio, al cui interno vi era posta una strana struttura. Una base di legno alta poco più di un metro e un palo, anch’esso di legno, di circa tre metri dal terreno, erano gli unici suoi elementi della struttura.

Qualche istante più tardi la folla agitata si spaccò a metà, creando uno stretto corridoio attraverso il quale si fece spazio un uomo. Dietro di lui, le mani legate tra loro da una fune, seguiva, arrancando una giovane donna. La pelle livida e la faccia gonfia della violenza dei suoi carnefici, la donna venne posta sulla struttura e legata al palo. I suoi occhi spenti guardarono dritto davanti a loro per tutta la durata del lungo e terribile processo; la bocca leggermente aperta mostrava la stessa angosciante oscurità, lo stesso glaciale vuoto delle sue pupille.

Poi una luce accecante divampò nella radura, illuminando le facce pallide dei sadici spettatori. Il fastidioso mormorio delle genti aveva ora lasciato posto alle urla della donna, al dolore proiettato in grida lancinanti e irregolari. L’aria si riempi riempì di un odore infernale di pelle e sangue bruciati che infestò il paesaggio.

Un suono, inumano, echeggiò tra le orecchie dei presenti;, un lamento straziante, proveniente non dalla donna questa volta, ma da sopra un muretto poco più in là, dove, con imperturbabile serietà, un gatto nero osservava la scena.