Canto MM’XXVI

Dante a distanza di più sedici secoli decide di ridiscendere le viscere dell’Inferno. Ad attenderlo nell’ottava bolgia, quella che ospita i consiglieri fraudolenti, ritrova una vecchia conoscenza. Avvolte dalle fiamme che le ardono, le anime dei dannati si dolgono e lamentano, meno che una. Un grande fuoco a due creste attira l’attenzione del nostro poeta, che dopo essersi sporto nel tentativo di immortalare il tumulto, come ora di consuetudine, chiede al suo conduttore Virgilio di aver colloquio con questa. Trattasi di Ulisse e Diomede, qui rinchiusi per aver usato il loro intelletto per ingannare e con loro altri antichi e moderni truffatori.

Da qui il dialogo tra Dante e Ulisse. Avendo il poeta dimenticato nei secoli il corretto uso degli amati endecasillabi, ci dovremmo qui accontentare di un più prosaico dialogo.

Ulisse: «Come già sai mi trovo qui per aver usato il mio intelletto senza virtù alcuna, per lo inganno e per la mortal gloria. Ma vedi o fiorentino, da quando sei andato molti qui son giunti, e per le più varie ragioni ora quivi ardono. Delle volontà umane che tuttavia spingono a far attivo uso dell’intelletto una su tutte fa da poco divampar la bolgia, che ancor non ti è nota!».

Dante: «Dimmi dunque, o acheo, di che si tratta, che è questa nuova piaga che devia la ragion dell’uomo al tempo nostro?».

U: «Tu ben sai come dalla nascita dell’uomo passando per i tempi miei e tuoi i morbi e le epidemie abbiano messo a repentaglio la sopravvivenza della nostra specie. La tua stessa poesia nasce dal dolore che ti provocò la peste nel toglierti Beatrice. Il buon ingegno dell’uomo tuttavia ha quasi del tutto cancellato questo dramma, tanto che una sol puntura data dallo speziale nella tenera età può al giorno d’oggi scongiurar la gran parte delle pesti. Non fosse per certi uomini d’oggi, che avversano la pratica, e che ora questa bolgia fan risplendere di nuova fiamma».

D: «Chi son dunque questi? Son forse li saraceni venuti dal mare? O li indigeni delle nuove terre?».

U: «Ahi no! A portar sciagura son gli stessi tuoi conterranei d’Italia, che adoperano la loro conoscenza per diffondere il timore. Questi infatti usano li nuovi messaggeri per veicolare la paura negli antidoti e nelle precauzioni, e dar adito alla cospirazione. A far spesa di ciò son gli infanti per lo più. Questi privi delle nuove soluzioni si vedono esposti al contagio o esclusi da chi ancora riesce ad adoperar il proprio senno. Questi non solo arrischian se stessi, ma l’umanità tutta. Si necessita che la virtù rivenga ristabilita salda; come allora ti raccontai la mia orazione per spingere la mia compagnia, or te la rinnovo perché tu la riporti alla luce e rimandi indietro le fedifraghe lingue fiammeggianti:

“Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”