D’incenso le vetrate

Posi il mio palmo aperto e titubante sulla porta dalle dimensioni abominevoli e spinsi, spinsi con più forza del previsto, feci come la voce mi aveva detto di fare. Aveva un timbro familiare, la voce, per questo mi fidavo.
Non ero mai entrato in una cattedrale, a dire il vero non ero mai entrato in un qualsiasi luogo di culto. Appena entrai fui colpito da un forte odore di incenso consumato da ipocrite preghiere.
Avanzai nel silenzio mentre le pupille cercavano di farsi strada nella nuova atmosfera nebbiosa, pochi i raggi di luce che attraversavano le imponenti vetrate offuscate dal tempo.
La voce tacque per dare spazio a canti solenni di numerosi cori che sembravano provenire dal retro dell’abside ma ero alquanto sicuro di essere solo, eppure i canti dei cori erano sempre più profondi e tonanti.
Il tempo che la mia mente potesse collocarsi nello spazio e calò il silenzio, era quasi frastornante sennonché la voce mi sussurrò di posare lo sguardo verso l’altare.
Rullo di tamburi cha accompagna l’iride calante, che si ferma confusa dove dovrebbe esserci stato un altare, il quale cedette il posto ad una miriade di ceri e candele odorose difficilmente distinguibili data la mia lontananza.
I miei occhi non credevano a loro stessi, tra le leggere nubi delle torce cerate si stava delineando un’oscura figura che a tempo col tamburellare si muoveva leggermente, ma più il ritmo si faceva calzante e le voci si aggiungevano alla melodia più la misteriosa presenza si sbracciava, saltava e contorceva come in preda a convulsioni musicali.
Un uomo dalla pelle candida come il marmo ma dai lineamenti aborigeni, lunghi capelli neri, trasandato e sudaticcio, spoglio, scalzo e affamato. Lo si capiva dagli occhi iniettati di sangue e la pancia rigonfia, come se stesse a dimenarsi da sempre e per sempre senza mai nutrirsi.
Non mi accorsi che il tempo che trascorsi a squadrare tale essere non avevo respirato. Proprio nel momento in cui le mie narici si dilatarono leggermente per inspirare ancora un po’ di quell’aria viziata attirai la sua attenzione; involontariamente avevo disturbato lui e l’arcano equilibrio che si era creato.
Si bloccò con la testa ritratta all’indietro ma la voltò lentamente verso di me, il suo sguardo penetrò i miei occhi con una facilità da far male.
Pochi istanti di connessione oculare e con un balzo degno di una gazzella scattò nella mia direzione, stava attraversando il corridoio centrale della cattedrale, mantenendo il contatto visivo, con una forza brutale nelle gambe, era già a pochi metri da me e non sembrava voler rallentare. Nonostante ciò non riuscivo a muovere anche solo una fibra del mio corpo, ero bloccato, piantato, radicato sotto la prima volta della navata centrale.

(di Gianmaria Zambon)