Ideale

Parleremo qui della storia di Kolya Litkin, di anni diciassette, addetto al terzo braccio meccanico della fabbrica Oljushenko sita nel quartiere Izmaylovo, a sud ovest di Mosca, e delle coincidenze sfortunate per cui potremmo considerarlo il russo più sfortunato del regno di zar Nicola II.

Il lavoro alla Oljushenko glielo aveva trovato il padre Alekseji, pregando il capo reparto e suo amico d’infanzia Kotkin. Il ruolo di Kolya non era utile alla produzione e pochi erano i soldi che portava a casa. I suoi compiti si riducevano alla pulizia degli impianti e al servizio personale a Kotkin, un viscido filozarista obeso, il cui alito sapeva sempre di vodka e uovo marcio. In quel gennaio del 1917 aveva già fatto arrestare due dei suoi migliori lavoratori, venendo ricompensato dal padrone per quel suo contributo alla sicurezza nazionale. Perdzic e Miroslav non si erano più visti. Erano tempi feroci, il freddo era violento e la fame insieme erano buoni motivi per tradire i propri fratelli. Kolya sapeva che sarebbe stato il prossimo.

Non si poteva dire che Kolya avesse una coscienza politica, soprattutto in quei tempi in cui il sospetto si trasformava presto in una condanna, la maggior parte delle volte definitiva. Aveva visto come le guardie dello zar avevano ridotto la faccia di Anatolij, suo fratello, per aver sputato vicino a una delle icone di Nicola II un sabato pomeriggio in centro. Certe volte, prima che scomparisse, aveva visto Miroslav passare certi volantini e fare certi discorsi che non lo convincevano del tutto. Un territorio così vasto, pensava, figurati se porteranno la libertà proprio a me, che non spicco certo per eroismo. Il viso di Rufina, invece, era qualcosa su cui avrebbe potuto disquisire per ore. Kotkin gli aveva chiesto di andare a prendere certe ragazze alla stazione e di portarle a casa sua perché si era messo in testa di avere bisogno di una segretaria, ora che il padrone contava su di lui per certe questioni di lealtà. Fra loro, Rufina, fra quelle giovani anime senza più occhi sicuramente la più bella ed elegante nella sua giacca scura e i capelli biondi, lucenti fino alle spalle. Le aveva acceso una sigaretta soltanto, e detto poco più di cinque parole, ma furono abbastanza perché il suo cuore inesperto ne venisse rapito. Kotkin lo aveva cacciato via a pedate, ma per la settimana seguente Kolya aveva acceso un cero sotto la statua di San Clemente, perché venisse scelta. Le preghiere erano servite, l’ottavo giorno, quando le speranze erano ormai perse, gli era passata davanti durante il turno, sorridendogli.

Il compito di Kolya, oltre alla fabbrica, era quello di portare la legna per il camino, sulla strada di ritorno. Proprio una sera, ansimando per il carico che portava sulla schiena, aveva visto Rufina baciarsi con quel Timofey che nel suo quartiere era nato ma non si faceva più vedere, viste le inimicizie che lui e la sua banda avevano suscitato dopo l’affaire delle molotov nelle cantine. Tutti sapevano che era stata la coppia di vecchi spioni del blocco 13 a denunciarli, come avevano fatto già con altri.

«Timofey!» gli aveva urlato d’istinto.
«Shhhhhh!» faceva Rufina portandosi i guanti alle labbra.
«Kolya Litkin!»

Kolya non si aspettava quell’affetto, erano poco più che conoscenti, ma aveva intravisto come un lampo degli occhi di Timofey, di gratitudine più che altro, per essersi esposto per lui chiamandolo per nome. Kolya non si si spiegava nemmeno perché rimanesse con loro per qualche minuto e non scappasse via. Rufina continuava a guardarlo, mentre si abbracciava con Timofey, poi annuiva, come per dire che era lui quello che cercavano.

Prima gli offrirono della vodka, in una casetta nel bosco, poi le sigarette. Timofey lo stava istruendo sulla situazione dei compagni, Kolya che non beveva mai cercava di capire ma tutto nella sua testa vorticava, mentre uno strano sapore di vomito si impossessava della sua gola. Prima di svenire ricordava Timofey che gli diceva che volevano eliminare Kotkin, che era la persona giusta per avere le informazioni necessarie che nemmeno Rufina era riuscita a ottenere, che si fidava di lui, come loro della sua adesione al progetto di liberazione. Poi un “ti faremo sapere compagno” sulla porta del blocco 13. Kolya ricordava solo il freddo del materasso, il peso della fatica e delle poche ore che lo separavano dalla nuova sveglia.

Il mattino dopo le occhiaie sul volto di Rufina confermavano che non aveva dormito da sola quella notte. Gli si era accostata solo un attimo, la mano sottile era scivolata sul fianco di Kolya e stringeva una lettera che lentamente gli aveva infilato dentro le tasche dei pantaloni. Le labbra di Rufina gli avevano sfiorato un orecchio, sussurrandogli un orario e una via del centro. In fretta Kolya si era girato, Rufina non c’era più, davanti a lui la figura imponente di Kotkin gli biascicava delle parole senza un filo logico, poi lo aveva preso per i capelli, trascinandoselo al viso. Il cuore di Kolya si era fermato, credendosi spacciato, colpevole di tutto quello che era successo. Stava già per confessare, preparando le lacrime, ma Kotkin si era messo a parlare di quanto era fortunato ad averlo in fabbrica, dandogli il resto della giornata libera. Kolya era troppo ingenuo per non credere alla bontà delle parole di Kotkin.

Kolya avrebbe raggiunto il teatro di Petrovka a bordo dell’autobus alle 16.45. Ancora non aveva letto la lettera, convinto che non sapendo almeno non avrebbe tradito nessuno. Poi l’aveva fatto, e si era sorpreso vedendo la calligrafia di Rufina chiedergli di uscire. Quando era sceso l’aveva vista in lontananza, sempre bellissima, che lo aspettava vicino a un café. Kolya le stava correndo incontro quando aveva visto da lontane le guardie circondarla e farla scomparire in un istante. Un foglio, simile a quello che aveva ricevuto era arrivato ai piedi di Kolya. Rufina lo aveva lasciato cadere, prima che le guardie la prendessero e lui l’aveva raccolta. La sua donna, sparita per sempre.
Prima sentì il rumore delle delle armature lucide, poi la mano che gli toccava la spalla destra, un odore acido di cavallo. Dietro di lui Timofey in uniforme dello zar. Non erano stati i vecchi del blocco 13 a fregarli tutti, allora. Kolya cominciò a correre, divincolandosi dalla stretta, c’erano urla, minacce e poi uno sparo che gli aveva trafitto il petto. Kolya aveva avuto appena il tempo per cominciare a leggere la lettera, prima di accasciarsi a terra, già zuppa di sangue, che così cominciava: Caro Timofey..