Ignoranza

Plop, plop.

Nel piccolo spazio che l’accoglieva l’unico suono che le faceva compagnia era quello di una gocciolina d’acqua che cadeva da qualche parte sul terreno. A giudicare dal suono fragoroso doveva essersi formata una dignitosa pozza d’acqua. Oppure erano le sue orecchie a essere ormai così abituate al silenzio della cella buia da avere sviluppato una capacità uditiva sovrumana.

All’inizio aveva provato a tenere il conto dei giorni ma, dovendo fare affidamento solo sulla memoria e un calcolo approssimativo del tempo, un concetto che non aveva più significato per lei, aveva presto lasciato perdere e si era rannicchiata in un angolino umido abbastanza da poter diventare un comodo giaciglio.

Persino quando l’uomo le portava da mangiare, quando apriva la porta di legno, ma era poi legno?, non riusciva a cogliere nemmeno un filo di luce, solo una tenebra un po’ meno densa in corrispondenza di quello che doveva essere il corridoio.

Plop, plop.

Altre goccioline si erano unite alla prima e adesso sembravano dei piccoli bagnanti che si ammassavano uno dietro l’altro nella fretta di tuffarsi dal soffitto.

Il buio non le dava fastidio. Le impediva di rendersi davvero conto di dove fosse finita. Le impediva di vedere di nuovo il volto di quell’uomo. Ricoperto da cicatrici orribili, con gli occhi vuoti come quelli di una bambola di porcellana e i peli ispidi delle sopracciglia lunghi come le vibrisse di un gatto.

Il buio le nascondeva quello che non voleva sapere e la proteggeva dalle conseguenze della conoscenza.

Rabbrividì al solo pensiero.

Al coro di bagnanti si era unito lo squittio di un ratto. Unico suono vivente nel suo silenzio rassegnato.

Quando l’animale le sfiorò la gamba nuda sobbalzò, non tanto per la sorpresa, ma per il contatto inusitato.

Quando la bestia ispida poi si allontanò si domandò cosa avrebbe visto nelle sue peregrinazioni al di fuori di quella prigione. E se ne sarebbe stato contento.

Plop, plop, plop.