Inconsapevole convivenza

Silenzio.
Mi trovavo perennemente in uno stato di sopore, simile al sonno. Mi muovevo di rado, girandomi e rigirandomi nelle acque calde di quella strana piscina, sbattendo di tanto in tanto contro una parete piuttosto morbida.
Avete presente quegli astronauti in orbita nello spazio, fluttuanti nella loro navicella in assenza di gravità?
Ecco, sembravo uno di loro.
Silenzio.
Silenzio.
Silenzio.
L’unica cosa in più che riuscivo a notare tra quelle mura tondeggianti, era una specie di tubo grinzoso, nodoso, al quale dovevo prestare parecchia attenzione. Capitava infatti che durante le mie giravolte, il tubo si muovesse insieme a me e mi si attorcigliasse addosso, quasi a legarmi come un arrosto prima di essere spinto nel forno.
Basta, Non c’era niente altro. Io, il mio amico tubo e nessun altro. Riuscite ad immaginare la noia?
Io la percepivo e la assaporavo fino in fondo in ogni secondo trascorso lì dentro.
Tutto così continuamente monotono. Crescevo e diventavo sempre più grande per quello spazio così ristretto. Mi vedevo schiacciato, mi sentivo soffocare.
La sensazione era quella di essere dentro ad una stanza con le pareti che a poco a poco si stringevano fino ad appoggiarsi una addosso all’altra.
Ma sono riuscito molto presto ad abituarmi anche a quella situazione, a quel nuovo, ristretto, modo di vivere. E’ incredibile come sia facile adattarsi ai cambiamenti quando non si ha nessuna alternativa.
Poi come un risucchio.
Sentivo il freddo, il viscido, l’umido.
Voci aliene gridavano. Non avevo mai sentito nulla del genere prima.
La luce.
Mai avrei pensato che l’universo si espandesse fuori dalla mia calda piscina. Sentivo di dover uscire, ma volevo restare.
Piangevo, mi dimenavo, urlavo.
Ormai esasperato, avvolto dal calore di due braccia molto più grandi delle mie, ho sentito un pianto. Un pianto nuovo, non era il mio.
Ho girato la testa e come se fossi davanti allo specchio, ho visto per la prima volta il mio gemello.

(di Irene Zanfardin)