L’altra

Sulla mensola dello specchio del bagno hai messo in fila gli stessi profumi che uso io: polvere che appanna una boccetta stucchevole a forma di mela rossa. La bugia necessaria alla distrazione è rotolata sotto quel mobile dove stipi le scarpe. Sai, anche a me piacciono le pieghe scure che divorano il cuoio, quando le togli e rimani a fissare il loro ghigno scomposto. Cammino estranea in una casa sbagliata e provo a indovinare le ellissi che i tuoi passi disegnano di solito, dalla cucina al soggiorno. Là pende un filo di foto che mi squadrano livide e impotenti, il cappio per l’eutanasia di un sentimento sfilacciato dal tempo, dall’ordinario che smussa gli spigoli del desiderio.

Spesso mi chiedo come saremmo noi due in un binario parallelo e sghembo. Fermo, non interrompermi, poi la smetto. Sto parlando con l’occhio clinico di una biologa che guarda vite impossibili in provetta.

Da assente, tu ci tieni in scacco. Non sai quanto vorrei abbandonarmi al ronzio del frigorifero, senza obbligarmi a infilzare i pensieri per unire i puntini e scommettere sui tuoi contorni: quali margini di me non si sovrappongono a te e tornano qui solo come antidoto all’abitudine, per riaffermare la differenza.

Tanto chi uscirà sconfitto da tutto questo sarai tu, tu con la tua coscienza da ricucire, i sensi di colpa e blablabla, il brulicare delle chiacchiere che ti fa credere di dominare i nostri vettori, dentro e fuori da quell’androne, incrociandoci con un paio di scatti nervosi, come se fossimo guidate da una cerniera impenitente.

Sono di nuovo allo specchio, alle fotografie. Loro rovesciano l’immagine, destra e sinistra, per procurarci l’illusione del reale. Lo specchio, il tuo specchio, non si concede neppure questo scarto che rincuora e assolve, mi registra mentre lo colpisco, così come lo colpisco, dice il vero in modo disumano, mi restituisce in un luogo esatto e indifferente. Non interpeta, per questo è degno di fiducia.

Tradire implica una consegna ai propri nemici, mi hai messo in mano i brandelli di un’intimità sconsacrata e io voglio solo piegarmi in un cono d’ombra e spiarvi da fuori, dove posso leccarmi le ferite di cui non mi ero accorta, dove sono al salvo dai piani che collassano, notte e giorno, io e lei, recite per coprire il vuoto e omissioni per rimanere nudi ma schermati, con il caso che spariglia le carte.

Eccomi, lui mi ha consegnato questo dazio alla dogana, non riesce più a guardarsi allo specchio, mi dice. Ci passa accanto di sguincio, cassando in dissolvenza sia me che te. E io oggi decido che vista da dietro ho l’andatura patetica e giusta per un addio. Quando ti specchierai vedrai la mia nuca e un filo che ti si impiglierà dentro, da qualche parte, e trascinerà con sé foto, pile di lenzuola che sanno di pulito e di sangue, i magneti sul frigo e noi due, accasciate nella simmetria attonita dei riflessi quando si estingue l’originale.