Miles Davis è vivo

L’ho visto ieri mattina, mentre passeggiavo lungo il corso approfittando della tregua dal gelo che ci aveva attanagliati nella sua morsa tagliente per tutto il mese ormai. Se ne stava ritto, imperturbato dal viavai di gente più o meno corrucciata dalle proprie incombenze, come una scultura millenaria di marmo nero, piombata in paese da un altro continente o, magari, messa lì dall’amministrazione comunale per spezzare un po’ il latteo nitore delle facciate dei palazzi tutt’intorno. Addobbato con abiti a metà tra il fluo e le tonalità pastello di un negozio di spezie, gli occhi schermati da un paio d’occhialoni giunti dal futuro, soffiava la propria anima in una tromba che aveva senz’altro visto giorni migliori; non aveva bisogno di basi registrate né colleghi che accompagnassero i ricami sonici con i quali trapuntava la fresca luce delle dieci; era un essere, sparato nel nostro mondo, che altero bastava a sé se stesso. Me ne restai lì un minuto buono, incredulo e abbagliato da quella visione che, pur nella sua completa inspiegabilità, non poteva lasciare adito a dubbio alcuno: davanti a me, in un borgo d’Italia come tanti, in uno dei luoghi al mondo meno riconducibili alla sua persona, si stagliava l’unico e solo Miles Davis.

Non poteva trattarsi di una carnevalata, per quanto inverosimile l’idea potesse sembrare. Era morto, quando, nel ’91? E oggi avrebbe avuto cent’anni o forse più. Tutto puntava nella stessa direzione, quella del mago dei travestimenti con la passione per il jazz; tutto, tranne le sequenze di note che sgorgavano da quella tromba malconcia – l’unico dettaglio estetico non esattamente fedele al Davis stra-colorato e imbevuto d’Africa, che vide la luce negli anni ’70 e tale rimase per il resto dei suoi giorni –, suonate in quell’inconfondibile stile, fatto di frasi che si andavano componendo poco per volta, arricchendosi di nuovi elementi dopo ogni intervallo; era come un santone venuto dallo spazio siderale, che declamava il proprio sermone per nessuno che non fosse sé se stesso. Poteva agghindarsi ad arte per i fotografi, ma un orecchio attento e devoto non sarebbe mai caduto nel tranello; fu così che, vinta ogni ragionevole perplessità, tirai fuori il telefono dalla tasca dei jeans e feci un video di un paio di minuti, convinto di stare immortalando l’unico e solo Miles Davis, ultracentenario, appostato a suonare accanto alla farmacia del paese, chissà se per avere a portata di mano una provvista di antidolorifici per i soliti problemi all’anca.

Pubblicarlo sui social fu un attimo e, di lì a un paio d’ore, diverse testate online già lo condividevano, titolando a caratteri cubitali, “MILES DAVIS È VIVO”, e rispolverando le care tesi complottiste che tanto adorano gli Elvis e i Jim Morrison, favoleggiandone vecchiaie da sogno in qualche paradiso tropicale. Neanche l’ondata di scetticismo si fece attendere; ma il suono di quella tromba, sbucata fino a noi da chissà quale varco spazio-temporale, era, ai miei timpani, più vivo che mai.