Movie Pill

E’ più facile colmare un vuoto o arrendersi alla sua vacuità?  Vivere o decidere di saltare? La risposta non è così ovvia soprattutto nel mondo del cinema dove tutto è possibile. Cosa aspettate, venite a scoprire la movie pill sui s_ _ _ i nel v_ _ _ o!

Lo ammetto all’inizio doveva essere una pill sui salti nel vuoto ma poi per svariati motivi ha preso  un’altra piega.
Primo: oziando su Youtube capita malauguratamente sotto i miei occhi il video “ Falling: le cadute nel vuoto più belle del cinema”.
In 3:18 minuti avete il massimo rendimento al minimo sforzo quindi godetevi la pacchia e se avete voglia di prendere appunti segnatevi questi must da vedere assolutamente: Magnolia (1999) di Paul Thomas Anderson, Vanilla sky (2001) di Cameron Crowe e Inception (2010) di Christopher Nolan oltre a quelli di Hitchcock, ovviamente.

Guarda “le cadute nel vuoto più belle del cinema”

Secondo: nel suddetto video incriminato, manca un salto.
E io volevo assolutamente parlare di quel salto.
Il regista in questione è Wim Wenders, uno dei massimi esponenti della new wave tedesca, e la pellicola Il cielo sopra Berlino (1987) miglior regia al 40° Festival di Cannes.
Mettiamo subito le carte in tavola: si tratta di un film molto bello con scene di una poeticità che toglie il fiato ma resta, lo ammetto, una mattonata abbastanza difficile da digerire.
Il fatto è che non c’è una vera e propria trama ma piuttosto un filo conduttore: le poesie di Rainer Maria Rilke. Da queste prendono vita due angeli invisibili, Damiel e Cassiel, che vagando per una Berlino profondamente segnata dalla “divisone”, osservano la popolazione percependone i pensieri, i problemi e la vacuità che li circonda.

Guarda “il cielo sopra Berlino”

 

Terzo: il tema è troppo complesso per essere congedato con una banale “playlist ragionata” delle migliori cadute della storia del cinema.
Occorre sporcarsi le mani e affrontare il discorso nella sua molteplicità.
Come? Ad esempio andando dall’altra parte del globo per parlare di quell’estetica del vuoto che caratterizza tanto cinema orientale.
Il discorso inevitabilmente si complica. Basti sapere che l’idea di vuoto è centrale oltre che fondamentale in tutta la riflessione religiosa, artistica e culturale orientale.
Una sensazione di una vacuità esistenziale è quindi insita nel DNA di registi come Akira Kurosawa, Yasujiro Ozu, Ann Hui o ancora i più recenti Zhāng Yìmóu, Kim Ki-Duc, Park Chan-wook che lavorano per sottrazione realizzando veri e propri capolavori del non detto.
La sensazione di vuoto si palesa, infatti, su due livelli: quello visivo ( fate attenzione ad esempio all la contrapposizione tra pieni e vuoti in Hero (2002) di Zhāng Yìmóu, che trovate sotto) e quello sonoro in cui la parola è lascia spazio alla potenza dell’immagine.

Vi è poi un filone tutto europeo in cui il vuoto ha una pregnanza particolare basti pensare alle atmosfere rarefatte di Michelangelo Antonioni e ai suo magistrali piani sequenza (qui sotto quello finale di Professione Reporter (1975)) o ai solitari protagonisti del gelido cinema svedese. Film come Persona (1966) di Ingmar Bergman in cui la mimica attoriale è costruita per sottrazioni o come Il vento (1928) di Victor Sjöström.

http://youtu.be/kkqtS5ubN50

Come in ogni cosa gli americani non stanno certo a guardare. Molti registi infatti, soprattutto in tempi recenti dirigono pellicole a mezz’aria che creano una parabola ascensionale di suspence che conduce lo spettatore verso l’inevitabile cul-de-sac di un finale sospeso. Sembra infatti andare di moda tra i directors a stelle e strisce l’espediente di concludere i propri film senza concluderli. Come alcuni lavori di D. Lynch, di D. Cronenberg o dei Fratelli Coen.
A proposito dei brothers di Minneapolis è piuttosto illuminante il “vuoto” A serious man (2009).

 

a cura di Micol Lorenzato