Sedicimetri

Sedici metri più in basso, in acqua, c’era mio padre. Muoveva le gambe come i pallanuotisti e le braccia in piccoli cerchi. Nei suoi occhi era esaurita la pazienza. Io avevo i capelli impastati di sale, le labbra viola, le spalle contratte dal freddo, e un costume troppo stretto che mi segava la pelle all’altezza delle scapole. Quando avevo 15 anni ero uno scheletro. “O ti tuffi o ti togli! Dai!” urlava da sotto mio padre. La sua voce arrivava fuori sincrono, o così mi pareva. Dietro di me, come Lemmings, altri cinque o sei ragazzini, maschi del posto, tutti con la pelle d’oca per il freddo. Per colpa mia.
Sapevo che mi sarei buttata prima o poi, ma non riuscivo a staccare la schiena dalla parete. Era aspra. Impestata di agavi e ginestre. Io mi guardavo i piedi per non guardare il mare ed erano la sola cosa che potessi mettere a fuoco senza che mi assalisse un senso di nausea. Le onde e la schiuma, laggiù, se le fissavi con troppa attenzione, sembravano allontanarsi. Non sentivo più le gambe e al tempo stesso era come se mi avessero piantato un chiodo attraverso ciascun ginocchio. Mio padre urlava cose del tipo “Facciamo notte!” oppure “Ci facciamo mangiare il belino dalle mosche!”. Se ne sbatteva degli sguardi di condanna degli altri adulti affacciati alla scogliera. Io, in effetti, pensavo che a mio figlio, o a maggior ragione a mia figlia, avrei vietato attività tanto rischiose. Mio padre, invece. Lui diceva che dovevo avere coraggio. Che se non mi fossi tuffata quel giorno me ne sarei pentita per tutta l’estate. Minimo. Sapevo che aveva ragione.
Infatti, mi tuffai. Non al momento giusto. Non dopo aver passato in rassegna i momenti salienti di una vita. Non perché mi sentissi pronta. Ma perché per un istante il mio cervello smise di funzionare. Un istante svuotato di ogni prudenza, ambizione, senso dell’equilibrio, consapevolezza di sé. Un’intermittenza. Black out.
E poi ero in aria, pesante come non avrei immaginato, le braccia scomposte, il respiro bloccato. E in mare, l’attrito e il buio. L’acqua fredda, più fredda. La Posidonia.
A cena mia madre non disse una parola. Mio padre fingeva un’espressione grave. Io ero felice di quel silenzio tra loro. Di quella rabbia adrenalinica da sventato pericolo. Felice di essermi buttata come mai avevo fatto e raramente avrei fatto poi. Sedici metri.
Due giorni più tardi avrei avuto la prima otite della mia vita e un livido, gigante, in fondo alla schiena.

(di Giulia Mietta)