Spazi immensi

L’acume dell’architetto aveva concesso alla camera di mia nonna una posizione isolata rispetto agli altri vani della casa. Dopo pranzo andavo a stendermi sul letto per guardare i cartoni animati, nella penombra delle tapparelle abbassate quasi del tutto. Era una sorta di sala cinema personale.
Un giorno fui distratto da uno scricchiolio prolungato. Misi a tacere i cartoni con il tasto muto e scoprii che le porte dell’armadio a muro, di certo a causa dell’usura, non si chiudevano bene se non con una mandata di chiave.
Mosso dalla curiosità esplorativa, in un ambiente di cui conoscevo solo il duro materasso e il televisore, aprii l’anta ritrovandomi faccia a faccia con me stesso. Osservai sorpreso l’ampio specchio rettangolare, ma la meraviglia vera fu svelare lo specchio gemello posto sull’altra anta dell’armadio. Ponendomi nel mezzo, constatai di avere creato un infinito porticato in cui innumerevoli cloni eseguivano i miei movimenti in piena sincronia.
Dopo saltelli, sventolamenti di mano e linguacce, decisi di contare i mondi paralleli di cui, seppure inconsciamente, mi sentivo il demiurgo.
Dovetti ricominciare la conta diverse volte. Già dopo la quarta copia di me la confusione si faceva forte, e non serviva alzare la mano e provare a contarne le repliche, che si sovrapponevano senza possibilità di distinzione nei punti più lontani.
Non so se ciò che accadde fu a causa della penombra, di semplice stanchezza o impossibilità di gestire la fantasia amplificata ad libitum. Mentre scrutavo le arcate profonde del porticato vidi una sagoma passarmi alle spalle. Mi voltai più volte senza capire cosa fosse stato. Cancellai la sequela di facce spaventate chiudendo le porte a chiave e scappai.
Per una settimana evitai di entrare nella camera. Mai più in seguito aprii l’armadio, che fu cambiato pochi anni dopo con mio segreto sollievo.

(di Marco Parlato)