Uomini e gamberi

Le migliori serate non iniziano certo con the e pasticcini, ma potrebbero finire con un risotto ai gamberetti, che ci guarda dal basso verso l’alto spiaccicato sull’asfalto. Ed è proprio un pasto di questo tipo il testimone, martire involontario riverso sulla strada, di una delle mie prime sbronze. Quel risotto rosa pastello rigettato in un’afosa serata di inizio settembre dopo una doppia cifra di spritz mi è sempre rimasto nella memoria, anche perché qualcuno me lo fece notare molto divertito: «Ma che hai mangiato stasera? Gamberi?». Dall’alto delle mie funzioni vitali minime glissai come potevo.

Ingenuo ancora non sapevo che prima di andare a bere con intenzioni bellicose bisognasse mangiare qualcosa di sobrio per non attirare l’attenzione nella sventurata eventualità.

Non è sicuramente un perfetto spartiacque tra serate andate benone ed altre meno, ma una domanda frequente degli amici quando dici di esserti ubriacato è: “Sì, ma hai vomitato?”, come se fosse la sola prova che ci si sia distrutti e divertiti sul serio. Non è sempre e totalmente vero e questa non è un’apologia del rigurgito o una lode sperticata alla sana vomitata, ma con tutta sincerità dico: fuochino. Perché è innegabile che alcune storie memorabili (per certi versi non sempre positive) della nostra adolescenza siano collegate a delle grandi e grosse vomitate liberatorie. Diciamocelo: in quasi tutte le serate da ricordare qualcuno ha lasciato un pezzetto di sé in giro.

Una pozza confusa verde smeraldo è ciò che per esempio ricordo di una festa di fine anno scolastico in cui esagerai con un liquore alla menta da discount. Mi portarono a casa in qualche modo, ma non entrai e decisi di schiacciare una dormita su una panchina nel giardino, per essere destato da una poco pacata chiamata genitoriale solo alle sei di mattina.

Mia madre ebbe la certezza della mia propensione all’alcolismo solo in un’altra occasione: dopo aver festeggiato l’orale di maturità e quella che pensavo la libertà più assoluta, vomitai di fianco al mio letto, raggiunto con grande fatica. Toccò a lei, svegliata dai miei conati, pulire il tutto e fornirmi il secchio d’ordinanza.

Non c’è onore in questo, lo so, ma è così che va quando si è giovani e ingenui e con poco controllo sulle nostre drink card.

Ed è un valido insegnamento di vita: un attimo prima hai il gomito alzato, tutto gira alla grande e ti senti il padrone del creato, e l’attimo dopo hai il culo per terra e c’è la tua ex cena di lato a farti compagnia, ma Gesù se ne valeva la pena.

Potresti anche essere così socievole da non riuscire proprio a tenere tutto per te e innaffiare la portiera dell’auto – ferma − di un tuo amico, come feci io, non avendo la lucidità di scendere. Fu così che sua madre conobbe bene il mio nome.

Ma la dea dell’ubriachezza molesta ha la vista un bel po’ annebbiata, però cieca non è. Non appena si ripiglia un attimo dall’after sistema tutte le questioni in sospeso, comprese le mie.

Ne fece le spese la mia macchina nuova che, dopo qualche mese, subì un contrappasso apollineo quando il mio amico ci rigurgitò sopra in corsa senza neanche avvisare di fermarmi. Gli passai qualche fazzoletto per ripulirsi e tutto ciò che ottenni fu un: “Siamo pari adesso!”, e furono le sue uniche parole per le dieci ore successive.

Fu così che vedendoci tornare (me e l’auto) mio padre non fece più domande su cosa facessimo il sabato sera.