Vedo il fuoco

Vedo il fuoco.

S’abbarbica sui lineamenti delle colline, brucia le linee delle montagne. Sbuffa e grida, strappa e lacera. Fumo arancione, denso, si alza dall’orizzonte, si confonde con il vespro.

E il mare in cui mi hai lanciato è un paradossale scherzo: tu bruci e io mi addormento senza forze nella nenia delle onde.

Guardai nell’obiettivo, come all’interno di una serratura. Spiai la tua immagine in quel tunnel nero: inerme, stagliata come un grattacielo al centro di quel prato di gerani. Eri di vetro.

Attraverso quella piccola scatola saggiavo il profilo del tuo viso dolcemente declinato verso il basso; le geometrie dei tuoi orecchini; il taglio delle tue palpebre socchiuse.

I tuoi occhi: gemme.
– Sto bene… mi vedi bene, così? -. Una pacata richiesta d’aiuto, la tua: tienimi qui.

Annuii appena oltre la protezione della tua Polaroid.
Indossavi una lunga giacca pesca, con rifiniture nere. La tenerezza con cui te la stringevi appena all’altezza dei fianchi era ciò che cercavo per il centro del mio obiettivo: inquadrai, respirai – eri fragile in mezzo a quel bosco – e scattai.

Nel frattempo al naso mi arrivò un odore pungente.

Sventolai la foto appena uscita, calda della tua copia, ancora soffusa e sbiadita. I tuoi tratti erano ancora nascosti. Non c’era nessun eccesso in te, nemmeno nelle istantanee che ti scattavo. I capelli scossi dal maestrale, le dita sui miei avambracci, i respiri sul mio collo: tutto conservava una melliflua patina di compostezza. L’eleganza con cui redarguivi te stessa per i passi sbagliati era commovente. Così, la fragilità della tua anima era proporzionale alla sua bellezza: una farfalla ad ottobre.

Non aspettammo che la polaroid s’asciugasse e ti lasciasse trasparire sulla pellicola. La conservasti nella copertina di una raccolta di racconti di Edgar Allan Poe che portavi nel tuo zaino di cuoio. Non c’era tempo. E lo capimmo con la stessa velocità con cui il fuoco si palesò tra le retrovie dei tronchi, come un violento e vivido paesaggio. Ti strinsi la mano e in quella stretta cercai di infondere le scuse per una gita guastata, come se il fuoco l’avessi appiccato io. Eppure quell’incendio fu scaltro, ci circondò poco fuori la radura. Il fuoco è furbo: io e te eravamo il suo pasto. Boati squarciarono il silenzio della foresta, il cielo si colorò di nera liquefatta paura. I fumi ci fecero tossire, ma correvamo in mezzo alle lingue calde e rosse. Nella corsa perdesti lo zaino, i tuoi occhi erano già languidi di paura.

Fermammo la corsa sul precipizio, quando la terra ci si levò appena da sotto i piedi: in bilico sull’oceano eri ancora più bella.

– Pensi che questo sia il nostro ultimo ricordo? – dicesti tra le lacrime. Ma non feci in tempo a rispondere. Mi aggrappai nel vuoto alle macchie delle tue iridi: la mia salvezza.

E nella mia, di iride, si riflette adesso il traballio dell’incendio. Sulle onde rimane tremolante cenere, che diventa sale.

Tu sei fuoco ora, io mare.

Mi sfuggi. Anche adesso.