Viaggio intergalattico in una periferia satellite

Questa è una città che ruota. È una luna che, orbitandoci attorno, ruota in sincrono su se stessa; perciò, la sua faccia ci appare immutata. È solo un problema di prospettiva, per cui basterebbe spostare il punto d’osservazione. Aspettare le cinque, quando d’inverno ha già fatto buio. A quell’ora, pesantissima la nebbia scivola dentro la valle. Potresti urlare che la tua voce sarebbe soltanto respinta da strati di lamiere e cemento, in tutti quei chilometri di silenzio, tornandoti indietro.

Ad un estremo c’è la stazione, all’altro, il parco. Di giorno le due zone sono concentrazioni caotiche di passanti, mentre di notte – cioè, sull’altra faccia di questa luna di provincia – pur vuote, rimangono dei fitti labirinti. E tra le torri di cristallo, i negozi e gli impianti abbandonati, sotto i fari industriali, stanno centinaia di sentinelle. Per semplicità, si chiameranno i Notturni.

Ho scavalcato per la prima volta la finestra aperta sul lato oscuro ad ottobre. Viaggiavo sull’autobus notturno ed il conducente ha annunciato che la solita strada era chiusa. Per la deviazione obbligata, finimmo davanti alla stazione, tutta spenta, fredda di marmo. Contro l’asfalto le schegge di vetro si fracassavano piano sotto le suole. Con noi c’era la polizia scientifica, parcheggiati attorno i camion dei pompieri e le pantere. Un chiosco dei kebab era esploso; dell’esplosione – esito, si è poi scritto, di un ricatto di droga – nessun testimone. Era accaduto altrove, dove tutto il silenzio inghiotte. Le facce dei Notturni comparivano come paia di occhi, ogni tanto, dietro i cassonetti.

In quelle laterali, accadono quotidianamente cose che non tollereremmo, se non fossero così decorosamente dissimulate. R. a malapena scende a comprare il pane sotto casa, con occhiali da sole e cappello. Ci fa accomodare sul letto, al centro di una mansarda con travi a vista, arredata sfarzosamente. Dappertutto in giro e sopra la toilette dorata sono sparpagliati in modo disordinatamente vanitoso un mucchio di carabattole, bigiotteria e gingilli vari. Improvvisamente, sento un gridolino acuto dall’altra stanza. R. ride della mia espressione: è suo padre, è con un cliente. Sono sue le parrucche nella stanza, tutte le stoffe e gli strass. Anche chi, come R., convive in una mansarda senza finestre, addobbata a bordello, sull’altra faccia della luna, non può o non vuole tornare alla propria terra.

È’ soprattutto il parco, ultimamente, ad avere vissuto le luci della ribalta. I Notturni non si convincono ad abbandonarlo, tanto che la Provincia ha fatto abbattere alcune strutture all’interno. Tutto è rimasto identico. Perlomeno di giorno, i Notturni non si distinguono. Non sviluppano interazioni con noi, che d’altra parte siamo stati educati a non percepirne la presenza. C’è chi poi la loro presenza è incaricato di sopprimerla. Settimane fa, mancava poco alla mezzanotte e parlavo con B. dei suoi parenti immigrati in Europa. Per la balbuzie, faticava a spiegarmi che la sorella è a Londra, che lui è cresciuto a Vienna, viaggiando solo sin da piccolo. Nel buio alle nostre spalle si sono accesi due fari e B. è scomparso. Una camionetta ha accostato. Si è aperta una portiera, sono comparsi un paio di anfibi e subito dopo un ragazzotto con l’uniforme dell’Esercito. Mi fissava, avvolto nel fumo caldo della condensa, illuminato dagli abbaglianti dietro di lui. Nel preludio di quella che sembrava un’esecuzione solenne, ha imbracciato il mitra, ed è rientrato, marciando, nel parco.

Con il tempo, i Notturni si sono abituati alle mie incursioni. C’è stata una volta in cui hanno anche tentato di introdurmi alle loro usanze. Il pomeriggio moriva, Orione sorgeva, e come mi avvicinai tutti mi strinsero la mano. Continuavano a ripetere “Biafra, Biafra” e a parlarmi in una lingua che non comprendevo. Di fatto qui non ne utilizzano una propria, piuttosto un miscuglio anomalo forgiato a partire da tutte quelle che masticano – inglese, francese, italiano, swahili, mandingo, solo per citarne alcune. Affidando al computer l’unico indizio che possedevo, ho scoperto che, in quel caso, si trattava della lingua nativa di una regione ex-secessionista, l’igbo. La banda di Notturni, partiti come membri di una minoranza almeno numerica, si è aggregata qui in un ricongiungimento tribale. L’igbo è il cordone ombelicale annodato alla patria, l’essenza ultima di un’identità che potrebbe dissolversi, se non fosse tanto gelosamente custodita.

Mi sposi?” Mi volto e vedo il sorriso sdentato di un senzatetto a pochi centimetri dal mio naso. Gli sorrido di rimando per convenienza. Lui ribatte: “Mi sposi? Mi danno la cittadinanza e tu mi lasci.”. Sogna una vita sull’altra faccia della luna, così come io ho subito una fascinazione per i luoghi di questa periferia satellite. Perché, in ogni viaggio intergalattico, non c’è lato da esplorare che non sia oscuro.