Accendere un fuoco e poi sparire

Una crisi di mezz’età in anticipo sul percorso.
Sulle prime aveva provato a spiegarsela così quella sensazione viscerale, balenata fuori dal nulla – come se qualcosa avesse smosso le ultime braci di un fuoco d’avvertimento ormai estinto.

A conti fatti, fanno quasi otto anni che Davide se ne va’ ad aprire la ferramenta alle prime luci dell’alba, zigzagando fra le ombre lunghe dei palazzotti in Corso Bramante, la tavola che scivola da sé, sfruttando lievi pendenze, lasciandolo libero di assaporare il morbido sbobinare delle ruote contro l’asfalto.
Da parecchio tempo a questa parte, però, nel mentre di quella vulnerabilità da abbiocco mattutino, lo affligge un presentimento che credeva ridotto in cenere, disperso nel vento dei tempi che corrono.
E pensare che quand’era solo uno sbarbatello, da quella stessa, straniante intuizione aveva cercato rifugio giù al Reggio – presentandosi lì così, senza manco un mezzo “ciao”.
Semplicemente aveva iniziato ad andar su e giù, tutto incazzato, e quelli erano stati là a guardarlo, annuendo e confabulando significativamente, a braccia conserte.
Allora era cominciato tutto.

Le scintille di quella loro frustrazione militante incendiavano ogni notte un disagio feroce, immolato ad ogni pogo, scorticato contro ogni rampa, muro o marciapiede capitasse a tiro, esorcizzato a forza di suoni e parole vomitati fuori come schegge incandescenti.
Fra le mura di quei crocevia che erano stati il Prinz e l’El Paso, Davide aveva forgiato la sua indipendenza a colpi di autogestione e autoproduzione, rifiutandosi di vivere quell’altra vita lì – al quartiere suo, fatta di figurine Panini e bar zeppi di flyer per disco-stronzate.

Alla fine, comunque, anche quel micro-cosmo così furioso e donchisciottescamente snob era stato fagocitato e cacato fuori a forza di collezioni F/W e retrospettive radical-chic, merchandisizzato ceduto al mercato in poster, locandine ed EP svenduti come tovaglie di feltro.
Pareva quasi che quell’anarchia fatta di MTV e paninari, hit-charts, sgomberi e neoliberismo gli avesse soffiato l’idea da sotto al naso: l’unica regola era diventata l’assenza di regole, lo scaricabarile della libertà di essere responsabilmente padroni di sé se stessi.
Barricato dentro quell’antro di ferramenta – che era di suo padre, tornatosene a Grisulì a godersi la pensione e beato lui, – Davide era arrivato alla conclusione che forse l’unica cosa davvero inconcepibile, oggigiorno, era quella di scegliere di non scegliere.

Sì, perché quel branco di ex-ribelli degli amici suoi – gente con figli piccoli e tutto, che ormai vedeva giusto per una sbronza ogni tanto, – era diventato un collage di individui liberi di sbarcare il lunario per un pelo, salvo pagare diligentemente mutui, bollette e scazzi vari.
Alla fine anche Davide aveva dovuto scegliere fra un ventaglio di prospettive obbligate, e così si era docilmente accoccolato nella “morale del fare” fine a sé se stessa, raggomitolandosi nella tiepida coperta di pile di un benessere succulento, facile, quasi ruffiano.

Sia chiaro poi che, pigrizia mentale a parte, lui ormai l’ha l’aveva capito da un pezzo che c’è c’era dell’altro in moto, molto in profondità, ma ha aveva sempre trovato conveniente fare lo gnorri, un po’ come fanno tutti gli altri. Il punto della faccenda -, qui, è che ultimamente Davide a lavorare come uno stronzo sente che sta giocando al gioco di qualcun altro. Quel suo complesso di inferiorità verso il padre – un ex-Stakanov di quelli svergognati a suon di megafono durante i picchettaggi al Lingotto, – sta’ lasciando il posto ad una specie di sensazione da pillola indorata infilata su per il culo.

Nonostante ciò, Davide si convince ogni sera che la soluzione sia tapparsi il cervello con le sue cuffiettone, scivolandosene a casa sillabando ritornelli di protesta un po’ passé, cercando di non pensare che forse in tutta quell’anarchia di città e di mondo, la ribellione non è più solo impossibile, ma decisamente impensabile.

Il volume, tuttavia -, per sua fortuna o sfortuna, non è mai alto abbastanza.