APNEA

Vedeva solo onde che si infrangevano l’una sull’altra senza criterio e, a intervalli irregolari, la piccola faccia di suo fratello, sfigurata nel tentativo di restare a galla.

Urlava aiuto senza riuscirci. La gola bruciava a entrambi, di sale. L’acqua era scura come il cielo sopra e comunque non era semplice capire dove fosse l’ossigeno e dove no.

Quando stai affogando, a un certo punto, inizi a bere perché credi ci sia aria, nell’acqua. Perché stai impazzendo. Suo fratello, stupido dei suoi 8 anni, stava iniziando a bere. Non poteva fare nulla per aiutarlo, ma decise che piuttosto di vederlo morire si sarebbe immerso. Sarebbe morto a sua volta ma almeno senza dover subire l’immagine spaventosa di quella piccola faccia viola, le vene che scoppiavano, gli occhi come quelli di una mucca trascinata al macello. E così andò sotto senza prendere fiato e iniziò a contare, a occhi chiusi, aspettando di perdere i sensi, o qualcosa del genere. Dopo pochi istanti gli venne in mente il finale di un film in cui Anna Magnani cammina verso il mare, sempre più al largo, e si toglie la vita così; la parola “fine” appare su di lei vestita di bianco, la testa che sparisce sott’acqua. 33 secondi dopo, Antonio li tirò fuori entrambi.

33 era da sempre il suo numero preferito, gli anni di Cristo, stava pensando – non riusciva davvero a concentrarsi sulla morte, sulla propria morte – quando sentì una mano prendergli i capelli e tirare forte. 33 secondi non erano proprio un cazzo, ragionava. Intanto suo fratello tossiva una tosse incapace, come se l’aria non potesse più entrargli nei bronchi. Entrambi, muovendo le gambe come i girini quando diventano rane e aggrappandosi alle spalle dell’uomo, uscirono dalla risacca, misero i piedi sulla roccia viscida di alghe, misero i piedi sui ricci e poi sulla sabbia. Gli schiaffi della madre arrivarono subito dopo. Suo fratello, come il vagito di un neonato, ritrovò la voce in un pianto che veniva dal blu.

(di Giulia Mietta)