Archè

Alcatraz restituisce il mio sguardo. L’oceano restituisce il mio riflettere.
Quel secondino che è la mia ragione cerca di tenere in riga i miei pensieri vorticosi.
L’irrazionalità, però, che è peggio del più convinto rivoluzionario, comanda la ribellione alle guardie.
Mi vedete? Sono quel prigioniero che, sì, ce l’ha fatta: è riuscito ad evadere. Ma. Ma non l’aveva previsto, non credeva che il passo più difficile dovesse ancora venire. Il salto che dalla scogliera lo separa dall’acqua, sarà complice della salvezza o causa della fine? L’interrogativo che gli tiene ancorati i piedi al suolo.
No, il passo più difficile non è stato confessarlo (sì, confessarlo, come fosse un delitto) al resto del mondo, nemmeno trovare il coraggio di vendere la casa, trovare un altro impiego, attraversare mezzo pianeta.
Nulla di tutto questo.
Il passo più difficile è quello che mi porterebbe irrimediabilmente giù da questo solido terreno verso l’incognita dell’oceano.
Il mio salto mi aspetta domani mattina, raggiante.
San Francisco scorre dietro alle mie spalle, ma la sua non è noncuranza, anzi: è seduta accanto a me e guarda quelle rughe sulla mia fronte, indizio del gomitolo di idee dietro ai miei occhi di oceano.
Ripenso a tutto quello che ho condiviso con lui, ripercorro situazioni, dettagli, profumi, gesti, canzoni, conversazioni, luoghi.
Rifletto sul nostro Arché, il nostro “principio conservatore e generatore”. Il nostro essere noi.
E penso che il nostro è una ricerca. Di una soluzione, di uno scopo, di una causa, di un po’ di compagnia, di una famiglia, di un rifugio, di uno spazio sconfinato, di un pranzo colmo di risate, di una poltrona del colore del nostro umore.
Importanti o meno, quello che conta è la condivisione di queste ricerche.
Ho la presunzione di credere di aver trovato quel qualcuno che le condividerà con me.
Japantown, l’Albero dei Desideri.
Rosa come i lobi delle orecchie, azzurri come un paio di occhi che ci hanno scrutati nel profondo, gialli come quell’angolo di paradiso che sono i campi del nonno, rossi come il quaderno di italiano alle elementari..stanno lì, centinaia, forse migliaia di foglietti.
Un oceano di desideri.
Sono tentato di leggerne qualcuno. Bambini, donne e anziani cosa desiderano? Americani, Italiani, Polacchi, Iraniani…da cosa sono afflitti?
Quale aspirazione è lì a guardarli dal comodino quando si svegliano?
Qual è lo struggimento che li segue per tutta la giornata?
Qual è quella voglia che si accovaccia ai piedi del letto quando si coricano la sera?
Vinco la curiosità, non sono nessuno per profanare quei desideri.
Foglietto bianco, lettere impresse con decisione. La mia ricerca con Stefano.
Non aggiungo altro, non pretendo troppo, il per sempre esiste raramente.
Ma il nostro Arché resterà, come passato, presente, futuro, solo come ricordo, come nostalgia, come racconto, come un pezzo di cuore, resterà.
Il mio salto mi aspetta questa mattina, raggiante.
Piego le ginocchia, do un ultimo sguardo alle mie spalle per non dimenticare cosa sto lasciando, i miei polmoni si riempiono, ossigeno ossigeno ossigeno, le braccia mi aiutano nello slancio, i muscoli si tendono, i capelli sono in balia dell’aria, il mio cervello naviga nell’esaltazione, il mio cuore batte all’impazzata o forse ha smesso, che mi importa.
L’impatto.
Sono dentro l’oceano, l’oceano è dentro di me, o addirittura siamo la stessa cosa.
Martino e Stefano, la loro ricerca e l’oceano che sa di trovata salvezza.
Martino e Stefano, 20 Settembre, San Francisco. Oggi sposi.

“Marito mio, tu sei per me guida, filosofo e maestro delle cose più belle e divine”
Plutarco

(di Sally Parolin)