Baggio

Il sole rossastro si smorza contro i rami di Marula spogli, mentre il sudore pregno d’ansia che mi tolgo con l’avambraccio m’entra nell’occhio, accecandolo. Ansimo e mi sistemo gli Aviator, e bestemmio. Un bruciore insostenibile, ma non più del caldo. Carezzo i capelli, bombi. Scroscio la mano, idrolizzando il terreno.

Devo bere e non posso spremermi. Mi reprimo.

Ansimo, e premo il grilletto.

Bevo sale autarchico e per poco non soffoco.

La gazzella cade e agonizza al suolo, la canna del Krieghoff Big Five mi riempie ancora il palmo della mano con le sue doppie protuberanze cilindriche. Muovo la mano su e giù, su e giù. Non sono abituato al calore, ma l’ebrezza di correre verso la preda stringendo l’Express dopo aver sparato è tanta. Eppure sbaglio stretta, Dio. Boia è lo spiraglio lasciato dal proiettile incamiciato che esteta guarnisce la giugulare della preda. Guardalo lui che esulta e si contrappone al rossore ematico che vitreo e opulento impallidisce la cornea animale. Gol! Gollll!

Carezzo il manto superiore grigio giallastro e lo stringo forte con la mano sinistra. Cute adiposa che mi riempie d’orgoglio nazionale anche se non so bene per che motivo.

Su e giù. Con la destra, continuo.

M’ustiono addobbandomi di fessure di milizia fumante.

Sport.

Le gambe cedono in spossatezza da tensione protratta. Vite per cacciare vite, pirica per accendere istinti primitivi, zolfo e sperma che s’infrangono nei boxer sportivi. Sorrido al fotografo che mi segue, mia figlia Valentina. Ricambia con i suoi occhi scuri, scostandosi i ricci castani poco dopo, anche se la mimica rimane contratta. È un momento di scambio essenziale, familiare. Inserisco l’indice nel foro d’uscita e smorfio, sollevando la testa dell’animale per poi lasciarla stramazzare verso l’aridità.

La preda immobile, stesa a terra, e noi rimontiamo sulla Wrangler bianca, diretti verso casa, dove ci aspetta Andreina. Non parliamo. La musica nella jeep passa da cassetta

Eh, già
Sembrava la fine del mondo
Ma sono qua
E non c’è niente che non va
Non c’è niente da cambiare

e io guardo i miei ettari africani luccicare, sassi e sabbia e secchezza e cuoio razzista di monocromie antitetiche, ricordando i prossimi eventi a cui dovrò partecipare e ripensando a quella pallottola che è entrata in modo consono e non cozzando alla cazzo verso l’alto, verso il corno magari, e ai miei nervi che hanno tenuto botta. Almeno stavolta.

Dio. Mi ripeto.