E basta

22 febbraio 2015

Cara Paula,

quante volte hai raccontato la tua storia?
“Sono una bambina di dieci mesi e intraprendo un’azione giudiziaria contro il Belgio”. Così hai scritto, a nome di Alexandra, in quel ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo negli anni ’70, sconvolta da una legge che dovrebbe essere sinonimo di uguaglianza e che ci discrimina fin dal momento della nascita. Così hai scritto, nel desiderio di migliorare la vita della figlia che avevi messo al mondo.

Ce ne vorrebbero di più di donne come te, Paula. Toccate dalle ingiustizie quotidiane e incapaci di tollerarle. Non disposte a piegare il capo, finché esiste anche solo uno strumento di lotta.

O forse sei bastata tu ad esigere che tua figlia fosse “figlia e basta”. Senza un inutile aggettivo apposto, a marchiarla della non colpa di una madre che ha deciso di metterla al mondo senza un uomo al suo fianco. Tu che hai preteso che gli occhi di chi guardava te e la tua bambina al parco vedessero una famiglia. Tu che hai aperto la strada a chi, dopo di te, ha cercato il riconoscimento dello stesso titolo al suo piccolo nucleo affettivo, indipendentemente dal numero e dal sesso dei componenti. Ma soprattutto, indipendentemente dall’adesione ad un angusto modello standardizzato dalle leggi.

Quasi quarant’anni dopo, Alexandra può sposare Marjoline e adottare Paula. Tre donne che diventano “una famiglia e basta”. Quasi quarant’anni dopo, in gran parte del Vecchio Continente, a costituire una famiglia è l’effettività sociale e non un atto firmato in comune. I ruoli di madre, padre, figlio, figlia non sempre sono tutti presenti, si combinano e si scombinano, dando luogo a una serie di realtà diverse ma uguali.

La certezza è che ogni figlio è “figlio e basta” e fa parte di una famiglia. E che tutte le famiglie felici si assomigliano. È un po’ anche merito tuo che hai lottato per una persona e hai cambiato la vita di milioni.

Grazie Paula Marckx,
Europa