Il gambero e l’istrice

A tutti i mestrini che ultimamente si lamentano per l’invasione del gambero killer in città, vorrei ricordare che una quarantina di anni fa gli USA hanno esportato a Torino una specie addirittura più aggressiva del crostaceo assassino: il punk.

C’è stato un tempo in cui il capoluogo piemontese è divenuto habitat naturale, anzi, industriale d’elezione di creature dall’animo più duro della colata d’asfalto che lo ricopriva, al punto da riuscire a scalfirne la superficie, crepare in profondità il suolo e trovare tra le sue infiltrazioni terreno fertile per il proprio insediamento e conseguente diffusione.

La loro comparsa risale alla fine del boom economico, da comparse passarono presto a protagonisti della scena e fecero un bel boom a modo loro.

Opposero la rivoluzione punk a quella industriale, della quale erano figli e detrattori, ingrata prole con ancora indosso le tracce del legame paterno, letteralmente: dal giubbotto tipico, il chiodo, ovvio riferimento alla carpenteria, a tutta la ferraglia di cui erano variamente agghindati, passando per quegli scarponi che, più che anticonformisti, parevano antinfortunistici, in effetti.

Corruppero un’intera generazione; convinsero i giovani a dire le parolacce, disobbedire alle regole e fare delle catene per legare le biciclette un uso improprio.

Finita la rivoluzione, passarono di moda e quindi all’evoluzione. Come i Pokémon, che ne hanno copiato quest’ultima idea e pure il nome, caratterizzato da palesi assonanze. È ormai risaputo, gli asiatici non brillano per originalità, ahimè. Prestito linguistico saltato fuori dalla storpiatura in giapponese della celeberrima locuzione “il punk è morto”, sicuramente. Basti pensare a tua nonna e quel viziaccio di scambiare con tanta facilità la festa di Halloween per il nome commerciale del suo antinfiammatorio preferito; si fa presto a confondersi, è un moment. Un prestito “integrato”, come si suol dire concedendosi il lusso di qualche tecnicismo gergale, ma non autorizzato e tantomeno restituito. Tuttavia, a restituire il favore c’hanno giustamente pensato i connazionali Digimon, altra pesante imitazione; chi la fa l’aspetti.

Tornando a noi. Così, si tramutarono in istrici: gli aculei, dapprima variopinti e concentrati sulla testa sotto forma di creste acuminate, si diffusero uniformemente anche su tutto il resto del corpo, non lasciandone scoperto nemmeno un centimetro, ora assumendo toni più cupi e spenti, manifestazione di criptismo, per (ché stanchi di distinguersi) meglio confondersi tra lampioni e portici, nel grigiore urbano. Ma conservarono lo stesso cuore selvatico, immutato.

A differenza dei Pokémon, però, meglio lasciarli stare; l’ultima volta che i Subsonica hanno provato a catturarne uno, è stato facile? Non lo è stato mai (a-a-aaa). È andata così: un bagno di sangue, cruento, e si trattava pure di una piccola esemplare. Il tutto documentato nel video più censurato della storia delle emittenti televisive musicali che mi venga in mente, adesso. A confronto, quell’episodio dell’anime escluso dalla messa in onda dove James del Team Rocket indossa un reggiseno gonfiabile per partecipare al concorso di bellezza è poca roba; della serie, Pikachuccia, proprio.

Ebbene, il punk non è morto. D’altronde, si sa, se c’è una cosa in cui il punk eccelle è (escogitare ed) adottare soluzioni atte alla sopravvivenza. E qualche volta, per sopravvivere, torna utile fingersi morti. Se è riuscito a tener botta a quel duro colpo inferto ai primi del nuovo millennio da orde di ragazzine dai dubbi gusti letterari, le quali presero ad attaccare i loro affezionati lucchetti ai ponti per suggellare storie d’ “amore” con individui che, se ben ricordo, all’epoca giravano con gli occhiali a tapparella in discoteca, beh. Allora ne sancisco l’immortalità, un movimento che vivrà in eterno, nei secoli dei secoli amen.

E così sarà per il gambero killer; contro le specie endemiche americane non esiste disinfestazione che tenga, arrenditi Mestre.