Il Giogo

Ne sono certo, un tempo vi furono molti più attimi come questo: congreghe di secondi ove solevo ritagliare dall’umido cartoncino delle mie stagioni qualche intimo frangente. 
Inoltre percepisco un germoglio di rimembranze sbocciare lento i cui petali parlano d’una tenera spavalderia, d’un capo ben ritto, d’un incedere lineare e deciso, d’impeti assecondati, di teneri contatti profumati passeggiare sottobraccio a quegli istanti.

Or ora il Regno di Poseidone ha voluto inglobarmi, sebbene di lui gli abitanti abbiano cessato di parlare. 
Qui dettano legge i mulinelli di Matrona Indolenza. Le caviglie, vittime designate, vengono presto attanagliate e la discesa non si fa attendere. Vi sono abissi che non sono rivelatori: tra questi il mio fondale. Una malevola luce è riflessa dal trono ferreo della perfida Regina che, sadica, impedisce allo sguardo la cecità; scorgo così tutti i baluginii sulle mai ferme increspature ondeggianti in superficie. Tanto meno è concessa ai prigionieri la sordità ed i canti ammaliatori sono ben propagati nelle infami acque a cui sono costretto, alcuna fune d’Ulisse a trattenermi: sono i gorghi, mai richiesti, della ridente Signora Accidia a portarmi sempre ad ella, tiranni.

Qui le gioie non concesse iniziano dall’opinione colma di convinzione espressa a gran voce, proseguono nell’esternazione d’una qualsiasi emozione e terminano nell’abbandono alla voluttà. Osservo allora i diabolici lazi costrittori attanagliare le mie membra stanche e così dalla destinazione giungo al principio: questo non è che il mio torace. Quale Regina, Matrona, Signora! Il Regno dell’Indolenza risiede in me e me solamente, rendendomi il despota di me stesso in un folle gioco che porta all’oblio delle pulsioni.

Qui, tuttavia, in questo preciso frangente, dinanzi ad una distesa innevata di cellulosa brandendo una semplice ambasciatrice del pensiero, vivo uno di quegli attimi ove il malleolo non è oppresso ed i baluginii della tiepida increspatura si fanno più vicini.