Il pezzo

Il “pezzo”, così lo chiama l’uomo di fronte a me, ha la superficie liscia e opalina. In questa notte nera come pece, i suoi riflessi sono macchie lattiginose che scivolano sulle piramidi di container in fila lungo la banchina.

Un lampo di luce biancastra galleggia sul viso olivastro dell’uomo, che sembra una miniatura accanto al “pezzo” alto più di tre metri. La carnagione livida, i capelli neri oleosi e le sopracciglia spesse contribuiscono ad affogare la sua figura nell’oscurità, la punta della sigaretta appena accesa è una lucciola che danza nel vuoto.

Il “pezzo” appare come un monolite di pasta di sale abbandonato da un gigante bambino, l’avanzo amorfo di un gioco dimenticato. Da lontano potrebbe sembrare il mastodontico corpo nudo di una modella boteriana. Ma avvicinandosi quello che diventa evidente è il manto disconnesso di avvallamenti e protuberanze frutto delle violenti martellate di chi ha forgiato l’opera.

L’uomo dice che il “pezzo” è una lastra di quello che era il Colosso di Rodi, una delle sette meraviglie, le classiche. Prosegue un discorso traballante sul sublime, sulla babelica tensione umana verso Dio, sulla superbia come corruzione dell’anima incapace di vedere la sua finitezza. Arrotola la lingua e la fa schioccare sul palato. Ha quattro figli, ne aveva cinque ma uno è morto in mare, trasportava “pezzi” dall’Egitto. È un lavoro duro, aggiunge mentre si spegne la sigaretta sul dorso della mano. Noto cicatrici che corrono trasversali alle vene, un fitto reticolo di strade inquadrate da un satellite.

Lo prendi? Mi chiede mentre fissa il fumo bianco che si alza dalla sua mano.

Ci sono incontri che non si possono sciogliere con un diniego. L’ho imparato quando lavoravo sulle navi. Ho visto corpi volare scomposti per poi piombare in mari incazzati, gli arti protesi verso il cielo mozzati dalle onde, irte creste taglienti. Probabilmente anche suo figlio se n’è andato così, penso.

Ma l’uomo no, il mare non lo inghiottirà donando epicità alla sua fine, il suo corpo non galleggerà tra i riflessi argentei di un banco di nobili pesci. Questo vile osserverà l’asfalto, le sue narici saranno invase dall’odore del sangue, lo squittio di roditori affamati sarà l’unico suono che accompagnerà le sue ultime ore.

Sulla banchina del porto stanotte fa freddo. Scosto il pesante mantello di tweed. La lama balugina nell’aria, attraversa il viso dell’uomo, e poi si inabissa nel petto. Il naso vola nell’aria, rimbalza a terra fino a fermarsi accanto alla sigaretta spenta.