Kumari

Non avevo mai visto il sangue scorrere dal mio corpo, fino all’età di quattordici anni.
Ho trascorso la mia vita senza mai toccare terra, in un palazzo in cui tutti erano ai miei ordini, e potevo muovermi pochissimo, perchè ogni mio gesto era considerato un presagio.
Sono stata Kumari dall’età di quattro anni fino ad un giorno di maggio imprecisato di dieci anni dopo.

Quando ero piccola e vivevo in un villaggio ai piedi dell’Himalaia con la mia famiglia, mi dissero che possedevo tutti i requisiti per essere la nuova Kumari reale, l’incarnazione della dea indù Durga: piedi piccoli, una bella ombra, corpo flessuoso come un banano, fronte larga, segni circolari sotto i piedi e sulle mani, ciglia come quelle di una mucca, pelle perfetta, occhi neri. Io ero felice, perchè sapevo che una Kumari è sempre vestita meglio di una regina, è più importante del re e ogni suo desiderio è un ordine. Non vedevo l’ora che venissero a prendermi per sottopormi all’ultima prova. La notte prima che arrivassero, mio nonno venne nella mia stanza e mi disse che qualunque cosa fosse successa, io avrei dovuto mostrarmi impassibile e calma, perchè una dea non si scompone mai e non ha paura di niente. Lui era sicuro che dentro di me ci fosse lo spirito della dea. Mi sembrava quello che ci credeva più di tutti, che dentro di me ci fosse qualcosa di divino, mentre i miei genitori non facevano che parlare di quanto prestigio avrebbe portato alla nostra famiglia avere una figlia Kumari.
Vennero il giorno, la sera della festa della Notte Nera, e mi chiusero in una capanna, al buio, sola. Nell’oscurità appena illuminata da torce io vidi appese al muro e gettate a terra centinaia di teste di bue e di capra, sgozzati in onore agli dei: la vista mi ripugnava ma non urlai e ingoiai il conato di vomito che mi saliva da dentro senza emettere un fiato. Poi entrarono degli uomini mascherati da demoni e cominciarono a danzare come dei pazzi, saltando e gridando e cercando di spaventarmi gettandomi addosso le teste mozzate; nemmeno quando una di loro mi schizzò la guancia con una scia di sangue ancora fresco emisi un solo gemito. Rimasi seduta per terra tutta la notte, cercando di pensare a cosa avrebbero detto a casa, se fossi tornata appena due giorni dopo, e se non fossi diventata Kumari. Meglio morire come quelle capre che subire un’umiliazione tale.
Il giorno dopo ero Kumari. Mi portarono nel mio palazzo in palanchino, vestita di rosso, con un’enorme corona in testa e il segno della Tika sulla fronte, e truccata come una donna grande, o come una regina. Quella era l’ultima volta che toccavo terra fuori dalle mie stanze, ma non pensavo a quello. Pensavo a come sarebbe stato bello avere un letto enorme tutto per me, e delle guardie del corpo, e delle serve al mio comando, e indossare ogni giorno vestiti da principessa, e andare in processione venerata da tutti, e vedere il re che si inchinava a me, per ricevere il sacro segno della Tika sulla fronte. E vederlo trasalire se avessi pianto, perchè chi vedere la Kumari piangere muore entro un anno, e il pianto della Kumari significa morte per un membro della famiglia reale. Ero entusiasta della mia nuova vita.
Per nove anni uscii dalle mie stanze solo portata in palanchino da quattro uomini, e per tutto quel tempo in pubblico non feci trasparire le mie emozioni, perchè ogni gesto della Kumari è un presagio della dea che parla attraverso lei. Vivevo una vita non mia, ma di qualcun altro, della dea che si era insidiata nel mio corpo e che tutti veneravano tramite me. Non la sentivo parlare con me, così come non sentivo parlare nessuno con me. Non veramente. E ogni sera controllavo che nessuna parte del mio corpo sanguinasse, perchè perdere una sola goccia di sangue per una Kumari significa perdere la divinità che è in lei. Con il sangue si acquista, e con il sangue si perde. Lo sanno tutti, che gli dei non sanguinano.
Un giorno però, avevo tredici anni, accadde qualcosa che non avevo previsto. Una guardia venne sostituita, e al suo posto arrivò il ragazzo più bello che avevo mai visto. Non seppi mai il suo nome. Tutto dentro il Kumari Bahal, la mia reggia, è segreto o sacrificio: nessuno conosce il nome della Kumari, e la Kumari non si deve curare del nome di nessuno. Appena lo vidi sentii che qualcosa dentro di me crollava come un sasso che frana dal costone di una montagna, e quando, per caso, mi guardò appena il mio cuore si sciolse: quello che stavo provando doveva essere la stessa cosa di cui mi parlavano i miei genitori quando mi narravano le storie antiche, delle principesse conquistate dagli sguatteri, l’amore, o qualcosa di simile. Avrei voluto parlargli, che mi guardasse con interesse e non con deferenza e rispetto misto a timore, che stesse accanto a me sul mio letto per parlarmi di lui, di che cosa gli piaceva fare quando non era a palazzo, e che mi accarezzasse i capelli. Mi resi conto che non controllavo più, la sera, se il mio corpo avesse tagli o se sanguinassi in basso, cosa che sarebbe potuta accadere da un momento all’altro, vista la mia età: ma ero quasi dispiaciuta se non vedevo nessuna traccia rossa sul mio corpo. Sapevo di non avere possibilità con lui: chi sposa una Kumari muore entro l’anno, così dice la gente. Però volevo guardarlo dalla stessa altezza, finalmente, essere adorata come ragazza e non come dea. Quindi una sera presi dal mio cofanetto di gioielli una spilla dorata e mi ferii al braccio, senza esitazione, un taglio che dalla mano arrivava quasi fino all’avambraccio. Crollai per terra sconvolta dalla vista del sangue che da me non era mai uscito, e mi salvarono per un pelo: senza soccorso sarei morta dissanguata. Mi svegliai in ospedale, non più dea e non più nessun’altra cosa: avevo disonorato la dea e me stessa, e già cercavano un’altra Kumari, che sarebbe stata una bimba piccola, non certo incline alle pene d’amore.
Adesso sono vecchia e nessuno riconoscerebbe più in me la Kumari che fece lo scandalo. Ma da questa storia ho imparato ad apprezzare il sangue della fatica, delle camminate sola per la città fino a crollare distrutta ai lati della strada, il sangue delle mie storie d’amore sempre finite male. Ho pagato forse il prezzo alla dea per averla estromessa da me con la violenza: ma se lei si è presa la parte migliore della mia vita, penso siamo arrivate al giusto accordo di lasciarmi vivere in pace, finalmente, il resto di vita che mi rimaneva.

(Giulia Zennaro)