La bambina

La stanza non aveva finestre, ma i genitori avevano fatto appendere alle pareti delle tende. Sembrava la camera da letto di una bambina morta prematuramente, immobile da anni per ricordarne la scomparsa improvvisa.
Invece la bambina era viva, distesa su un letto rifatto alla perfezione, il copriletto malridotto che non aveva nulla di decorativo, le lenzuola bianche ancora un po’ umide, la stufa spenta, ma ancora calda. Il soffitto era basso, tappeti a coprire tutto il pavimento dove la bambina aveva giocato con il suo gatto fino a poche ore prima di trovarsi a pancia in giù, il vestito alzato fino all’osso sacro, senza mutandine.
I piedi le ciondolavano chiusi in due scarpette di vernice nera e lucida, troppo eleganti per l’occasione, il viso immerso nel copriletto, quasi che cercasse di soffocare. Era sempre stata una bambina molto silenziosa, ma spesso si raccontava quello che le succedeva intorno, anche se non sempre trovava le parole giuste. E per questo non riusciva a capire del tutto perché si trovasse lì, anche se l’idea l’eccitava. Non aveva aspettato molto, forse quattro o cinque minuti, fino al momento in cui i suoi genitori furono nella stanza con un uomo. Gli indicarono la figlia con un sorriso timido, come quando si mostra un oggetto in vendita. L’uomo avanzò mentre i due vecchi si stringevano le mani all’altezza del petto. Cercarono di avvicinarsi al letto ma l’uomo li fermò alzando una mano.
Restò per qualche istante ad osservare quel corpo nudo mentre si toglieva gli oggetti che aveva in tasca. Li poggiava sul comodino vicino ai piedi della bambina, e nel frattempo fissava il sedere piccolo e sodo, la pelle del colore del latte, le mani minuscole che si allungavano per cercare di toccare il gatto che la fissava senza espressione. Il rumore delle chiavi che sbattevano sul legno quasi la risvegliò, alzò leggermente il viso ma non riuscì a vedere nulla. L’uomo si calò i pantaloni, sputò sulla mano e iniziò a passarla in mezzo alle gambe, mentre con l’altra si teneva stretto il cazzo, era da casa che aspettava quel momento. “Non pesa nulla” pensò. Quando entrò dentro cinse con un braccio tutto il corpo, e quando le palle iniziarono a sbatterle sul sedere iniziò ad immaginare che il suo cazzo potesse uscirle fuori dalla gola, e allora stava per venire e dovette fermarsi.
“Devo durare almeno dieci minuti”: questi erano i patti. Allora rallentò quasi fino a fermarsi, si girò verso i genitori, poi cercò di vedere se il gatto fosse ancora lì. Le vene del cazzo gli pulsavano quanto quelle della testa. Guardò la schiena della bambina: era rossa, e la pelle del sedere già livida. Sbuffò, grugnì, scosse la testa e poi ricominciò. Andò sempre più veloce finché non le venne dentro.
Quando si staccò ancora colava e ansimava. Fece un passo indietro, sporcò il tappeto e le scarpe. “Ora puoi alzarti” disse la madre alla bambina in tono rassicurante, sporgendosi un poco. Lei non si alzò subito, sembrava in dormiveglia, c’era il gatto che la guardava dall’altra parte del letto. “Ciao ciao bel micino, ciao ciao.”
Si mise a sedere, il viso all’altezza del pisello di quell’uomo, che non mandava affatto un buon odore, un odore che assomigliava a quello delle uova che mangiava tutte le mattine. Restò così, come se fosse la posizione più naturale del mondo, poi quell’uomo si chinò per raccogliere i pantaloni, rimise le sue cose in tasca e si voltò verso i genitori, il padre fece sì con la testa, disse: “Nove minuti” e allungò una busta, l’uomo la prese e uscì dalla stanza.
Quando i genitori sentirono la porta sbattere corsero verso il letto e si sedettero vicino alla bambina, una da una parte, uno dall’altra. La bambina strinse le mani di entrambi e appoggiò il viso sulla spalla del padre, poi disse soltanto: “Grazie”.

(di Alessandra Perna)