Lahar Compilation #6 – parte prima

Dai poveri migranti in cerca di un assaggio del nostro sbandierato sviluppo ai laureati che da questo sviluppo cercano una via di fuga, fino a quelli che nell’altrove trovano un approdo sicuro dalle mareggiate della propria coscienza. Tre modalità, tre mondi e tre ambizioni. Raccontate con tre canzoni ciascuna e dei racconti brevi, talvolta solo accennati, sospesi tra parole e musica.

(Doverosa) premessa: La prima volta che mi misi al lavoro su una compilation a tema “nomadi” avevo in mente qualcosa di molto diverso da quello che state per ascoltare (ma anche leggere). Mi sarebbe piaciuto infatti addentrarmi nell’universo sonoro delle culture nomadi o seminomadi ancora esistenti (come quella zigana, o quella beduina), andando così a comporre un mappamondo in miniatura fatto di ritmi tribali, canti gutturali e gonnellone colorate. Avanzando col lavoro però mi resi presto conto che tali universi non mi appartengono e, cosa ben più grave, non ne conosco affatto i confini.

Accantonata quell’idea, ciò che vi propongo questa settimana è una serie di pensieri in libertà che canzoni a me più congeniali mi suscitavano, tastiera alla mano. Mi perdonerete quindi se mi sono preso il permesso di andare, parzialmente, fuori tema. Di nomadismo in senso stretto infatti non ci troverete molto (probabilmente nulla). Ci troverete invece canzoni per migranti, che spesso un luogo fisso faticano a trovarlo (e che poi tanto fisso si rivela non essere), canzoni per viaggiatori, il cui spirito irrequieto e proteso in avanti non può non darmi l’idea opposta alla sedentarietà, e ci troverete infine canzoni il cui filo conduttore è forse meno esplicito, ma che per motivi diversi valeva la pena di mettere. Buon ascolto.

Nomadi-1: Gli invasori

Iosonouncane – Summer on a spiaggia affollata
(La Macarena su Roma, 2011)

Il caldo estivo. Le partite della nazionale. Il gelato. I VIP al mare. La prova costume. I thriller in prima serata. Le cene all’aperto. Le infradito. Jesolo, Rimini, Riccione. I vecchi nei supermercati. L’ombrellone. L’esodo, il controesodo e l’antiesodo. La milf in topless. Il chiosco sulla spiaggia. La piscina. Il fresbee. I barconi a Lampedusa. I morti a Lampedusa. La diretta del tg da Lampedusa.

L’orda, come impropriamente apostrofato il flusso migratorio da aree sottosviluppate verso quella manciata di Stati che quel sottosviluppo cronico hanno contribuito a crearlo, è una costante di ogni estate che si rispetti. Tanto che ci si abitua, perfino, a una ventina tra uomini, donne e bambine che annegano a tre chilometri dalla spiaggia dove un impiegato semiobeso di Milano3 si sta abbronzando il culo leggendo sulla Gazzetta dei 10 milioni all’anno di Kakà.
«Bisognerebbe rimandarli indietro a colpi di fucile», è la sua opinione in merito.

P.S. L’album di Iosonouncane è il miglior esordio italiano dai tempi di “Socialismo Tascabile” degli Offlaga Disco Pax. Tenetelo d’occhio.

http://www.youtube.com/watch?v=Uz2XjA-k3ZM

Manu Chao – Clandestino
(live in Maricopa, Arizona, 2011)

Tra tutti i confini, limiti, barriere e frontiere che qualche generale baffuto ha disegnato con matita e squadra su di una mappa, quello tra Messico e Stati Uniti è sicuramente quello che ha causato più sofferenza. Da una parte l’America (anche le parole ci hanno rubato), la terra dove tutto è possibile, creata da emigranti per gli emigranti, nel cui simbolo campeggia la seguente scritta:

“Datemi i vostri stanchi, i vostri poveri, le vostre masse infreddolite desiderose di respirare liberi, i rifiuti miserabili delle vostre spiagge affollate. Mandatemi loro, i senzatetto, gli scossi dalle tempeste a me, e io solleverò la mia fiaccola accanto alla porta dorata”

 Dall’altra il tutto il resto. Il continente desaparecido che dell’America rappresenta la maggior parte ma che America non è più e la cui frutta inonda i Walmart, il cui petrolio alimenta le Ford e il cui litio accende gli iPad.

In mezzo, la frontiera. Muri, filo spinato, videocamere, elicotteri, fotocellule, posti di blocco. Ma anche carceri, dove vengono parcheggiati gli indocumentati finché lo sceriffo non decide che servono nuovi manovali nei cantieri. Come quello di Maricopa, dove l’anno scorso Manu Chao registrò una versione acustica della sua canzone più celebre. Un inno amaro e sofferto, da parte di un poeta multietnico, suburbano e apolide. Nella speranza che qualcuno, da qualche parte, si ricordi di quelle persone.

P.S. È notizia dell’altro giorno che Obama ha impedito l’estradizione di 800mila clandestini entrati in territorio statunitense quando avevano meno di 16 anni. Non è molto, ma è qualcosa.

Gogol Bordello – Immigriada (We Comin’ Rougher)
(Live on the Interface, 2010) 

Sebastian ha 32 anni. E’ rumeno e vive a Trento ormai da qualche anno. Non ha un lavoro fisso, vive di espedienti e svolgendo lavoretti temporanei per delle aziende edili. Vorrebbe fare il tatuatore, tanto che si è comprato tutto l’occorrente e ha imparato da autodidatta sperimentando su sé stesso. Ha fatto praticamente ogni lavoro che potreste immaginare, ha vissuto in praticamente tutti i Paesi d’Europa, cambiando ogni volta vita, ripartendo da zero. Si è fermato in Italia perchè qui si sta bene, dice.

Un giorno il padrone per cui aveva ridipinto un capannone intero si rifiutò di pagarlo. Sebastian si rivolse al sindacato, che portò il proprietario in tribunale. A causa dei tempi lunghi della giustizia però l’uomo fece in tempo a intestare tutti i suoi averi a delle persone fidate e per quando si celebrò il processo egli risultava nullatenente.

La sentenza finale decise che l’uomo avrebbe sì dovuto pagare a Sebastian i soldi del lavoro, ma in comode rate spalmate in dieci anni. Poche centinaia di euro l’anno quindi per Sebastian, che dieci anni nello stesso paese non se li è mai fatti e che se si fosse spostato avrebbe sicuramente perso i suoi soldi.

L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Altrui.

(Continua…)

Marco Dalla Stella