Maggie the indestructible

“Da grande vorrei essere come Margaret Bourke-White.» – «Chi?»

Chrysler building, una donna e la sua macchina fotografica su un’aquila d’acciaio. Margaret nata nel Bronx all’alba del 1900, origini polacche e irlandesi. Una ragazza di ferro, che non ha paura di niente: il suo primo incarico fotografico di rilievo la porta in un’acciaieria, malvista non solo perchè perché stava documentando un settore industriale critico all’epoca, ma anche in quanto donna.

Iniziano gli anni ’30 e lei è la prima fotografa straniera a poter entrare nella Russia sovietica e documentarne la vita; sei anni dopo sarà la prima donna ad ottenere un contratto da fotoreporter per Life. Parentesi: il fotoreporter non è di per sé un mestiere tranquillo e sicuro, ma essere corrispondenti di guerra a cavallo tra gli anni ’30 e ’40 significava pericolo certo. Guarda caso, Margaret è la prima donna ad esserlo, e ancora una volta, la prima ad ottenere il permesso di lavorare nelle zone di combattimento durante la seconda guerra mondiale. Non è certo un incarico da poco, ma come dicevamo prima lei non teme nulla, né le bombe a Mosca, né i proiettili sul fronte italiano o il gelo artico: il soprannome Maggie l’indistruttibile non le sarà certo assegnato per caso.

Sopravvive infatti al naufragio (causa bombardamento) della nave militare su cui stava viaggiando in direzione nord Africa: a quel punto la maggior parte di noi comuni mortali avrebbe detto: “Beh, può anche bastare”. Invece poco dopo lei carica la macchina fotografica su un caccia, al seguito dell’aviazione.

Di nuovo, la prima donna a farlo.

Un’altra immagine celebre: una donna vestita di tutto punto con la tuta da aviatore, in posa di fianco al velivolo. Una foto da pin-up? Secondo alcune testimonianze sì, addirittura di più delle immagini prodotte appositamente.

Seconda parentesi: evidentemente sentiva molto il fascino della ripresa dall’alto. Si sta parlando qui di una fotografa che si è arrampicata con una macchina fotografica (all’epoca non esattamente maneggevole) su un grattacielo per riprendere New York dall’alto, e che durante le grandi alluvioni nel Sudovest americano noleggiava piccoli aerei chiedendo talvolta al pilota di lasciarle aperto il portello laterale, così da potersi sporgere per ottenere un’inquadratura migliore.

Negli stessi anni, viene apparentemente considerata da alcuni colleghi e assistenti calcolatrice, insensibile, dispotica. Ma non è questa forse una sorta di reazione di invidia del mondo del fotogiornalismo, dominato dalla presenza maschile?

Noi non possiamo immaginare quale orrore si possa provare entrando con l’esercito in un campo di concentramento abbandonato (e in fondo è un’esperienza che non vogliamo possa replicarsi), ma per documentarla servono una forza e una resistenza di carattere non comuni. Dalle sue stesse parole, la macchina fotografica servì a mettere un filtro, per quanto debole, tra lei e la distruzione che si trovava davanti ai suoi occhi.

Eppure il suo nome non gode certo la fama di altri suoi colleghi, forse meno pionieri, meno coraggiosi e determinati. E sì che almeno una delle sue fotografie ce l’hanno presente tutti: Gandhi, con il suo arcolaio, che non guarda nell’obiettivo. A quanti di noi, pensando a Gandhi, non viene in mente quella foto?

Le sue immagini hanno contribuito in maniera sostanziale a costruire l’immaginario del secolo scorso. A questo proposito, tornando un attimo indietro: quella foto di Stalin sorridente (no, non è Gino Cervi)? Di nuovo sua.

La Bourke-White negli anni cinquanta documenta il conflitto India-Pakistan, le miniere del Sud Africa, la guerra di Corea. Proprio in quel frangente avverte i primi sintomi del morbo di Parkinson, che la costringeranno ad abbandonare progressivamente il suo lavoro. Si sottopone infatti a due interventi al cervello nella speranza di alleviare la degenerazione della malattia. Non servirà, ma anche in questo frangente: senza paura.

Si potrebbe andare avanti ancora molto, e partendo da lei arrivare a Dorothea Lange, Lucia Moholy-Nagy, Imogen Cunningham, Diane Arbus, Tina Modotti. Donne con (e dietro) un obiettivo.

“I want to do all the things that women never do!”
(Margaret Bourke-White)