Fino a Trieste è ancora casa

Fino a Trieste è ancora casa. Poi da Basovizza diventa un tuffo oltre la cortina di ferro, per la strada che tagliando l’Istria porta a Rijeka, attraverso fieno che si secca e spiedi accesi. Giù seguendo il mare a Zadar e poi Split, le isole in controluce vestono bandiere a scacchi e ogni curva sullo strapiombo recita cori per l’Hajduk. Un breve salto sulle spalle di Neum l’assediata, poi Dubrovnik di pietra chiara e lucida, un regno di sole e riflessi accecanti. Kotor si ritrae dalle acque nere delle Bocche verso i monti scuri che la sorreggono, i bambini sui marciapiedi vendono sigarette duty-free e i negozi pure. Podgorica la notte è silenziosa, vetro e acciaio conficcati in un corpo di cemento, avanti attraverso lo Scutari che sembra un mare e per strade che si attorcigliano e si sfibrano sulle montagne consumate. Un cartello sull’autostrada segnala Pristina vicina, poi di nuovo le linee rette abbandonano la geometria del paesaggio fino a Sofia. Ci vuole perseveranza e devozione al viaggio per arrivarci, ma poi dai fiumi di pietra del Vitosa l’occhio può scivolare sulla strada del Sultano. Oltre Edirne e le fragranze delle olive che si fanno più intense, guarda la Sublime Porta, dal Topkapi a guardia del Bosforo. Mentre la spazzatura di Istanbul galleggia sulle acque marroni del Corno d’Oro, sembra che Calcutta e Milano giacciano insieme tra i vicoli della città, ma una volta imboccato il ponte tra i due continenti si vede tutto dall’alto. È con distacco che abbandono un mondo per un altro e tendo a guardare più avanti del mio passo, più avanti di Izmit e di un golfo pieno di petroliere, imperlato delle vasche bianche delle raffinerie. Più avanti c’è il resto del mondo, ci sono Erzurum e il monte Ararat, l’elegante alfabeto armeno e i vecchi nelle bettole di Yerevan, la frontiera ad Agarak, dove mostrare il passaporto ai Pasdaran e incrociare le dita, le strade dei mercanti sugli altipiani iranici e dei Khan a cavallo tra le rughe dell’Hindu Kush. C’è una nostra guerra lì e vorrei vederla con i miei occhi. Si può giungere all’Indo e fermarsi a guardarlo, immaginando l’acqua torbida discendere dal Tibet, infiltrarsi tra il Karakorum e il Kashmir e impregnarsi dei popoli nascosti tra quegli altipiani. Più avanti ancora un miliardo di persone emana una colorata cultura all’ombra dell’Himalaya, poi, oltre i grandi fiumi e il delta bengalese, la giungla abbraccia Rangoon. I templi dorati e le strade chiassose s’inseguono fino a Kuala Lumpur e Singapore, lì dalla vetrata di un grattacielo si possono scorgere le mille isole indonesiane e chiedersi cosa c’è ancora più in là, ancora avanti, che profumo ha la gente oltre quel mare, cosa mangia, dove vive, che canzoni canta la sera.
Nella realtà, io mi fermo in Turchia e mi consolo col pesce dei villaggi egei e il raki ghiacciato. C’è ancora tempo, mi ripeto, e mi assopisco facendomi promesse.

di Tobia Munari